Tat’jana e Arina al centro della conversazione con lo scrittore parmigiano, per riscoprire il valore reale e simbolico di queste eroine nella letteratura russa.
Qualche settimana fa, tramite il gruppo di lettura/scrittura, mi è capitato di far due piacevolissime chiacchiere via Zoom con Paolo Nori riguardo al suo ultimo libro Sanguina ancora (Mondadori). Adesso il libro è nella cinquina del Premio Campiello. E se lo merita, almeno a giudicare da ciò che ne ho letto fin qui (devo ancora finirlo, lo so; non è forse l’estate la fiera delle cose saporite e della procrastinazione? Me lo sto facendo durare come una caramella di quelle buone). La voce di Paolo Nori accarezza, placa, fa sorridere, erudisce; sia quella che si sente leggendo il libro, sia quella vera, o meglio quella dal microfono della diretta web. La cosa che mi ha colpita di più durante la chiacchierata è stata vederlo quasi commosso mentre ci parlava di Tat’jana e di Arina. Eppure, Sanguina ancora, come si capisce dal sottotitolo, sarebbe un libro sull’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij. Sarebbe, lo è, ma non solo. Non è solo un romanzo, non è solo una biografia, non è solo un saggio. È tutto ciò mescolato assieme: è, appunto, una chiacchierata sul grande scrittore russo e su tanto, ma tanto, di ciò che gli è ruotato attorno: dagli altri grandi russi, a partire da Puškin per arrivare a Tolstoj, fino ai protagonisti dei loro romanzi e delle loro vite e, guarda un po’, alle protagoniste. Come Tat’jana e Arina, che ci fanno commuovere anche attraverso cuffie e telecamera del nostro computer, mentre Nori ce le racconta; la prima personaggio della penna di Puškin e la seconda colei che Puškin lo ha allevato.
Tat’jana è la sorella di Ol’ga, fidanzata del poeta e amico del giovane e annoiato protagonista Evgnij Onegin dell’omonimo romanzo in versi di Puškin . «La sorella di Ol’ga si chiama Tat’jana e non è bella come Ol’ga -, scrive Nori,- è selvatica, triste, taciturna, e sta, la maggior parte del tempo, alla finestra, a guardar fuori, in un “ozio ricamato di sogni”. Quando Onegin va a casa di Ol’ga assieme all’amico fidanzato di lei, Vladimir Lenskij, Puškin scrive che egli dice al giovane amico: «Io se, come te, fossi un poeta, mi sarei innamorato dell’altra sorella», cioè Tat’jana.
Puškin scrive questo di una ragazza che lui dipinge del tutto atipica per quel tempo, e lo scrive nel 1823. Dostoevskij, quasi sessant’anni dopo, scrive che il romanzo di Puškin non avrebbe dovuto intitolarsi Evgenij Onegin, bensì Tat’jana, perché la vera protagonista del romanzo è lei. Ma cosa fece Tat’jana di tanto anticonformista e intelligente? Nulla e tutto: si innamorò di un uomo e lo disse, anzi lo scrisse. Tat’jana si innamora di Onegin e semplicemente si sente in diritto di dirglielo, di proporsi, di corteggiarlo. In Russia, nella prima metà dell’800. Non solo, decide addirittura di metterlo per iscritto, di scrivergli una lettera. Un azzardo incredibile, una ragazza che scrive a un maschio per confessargli il suo amore, per fargli sapere che lo desidera, con una lettera «da far mancare la terra sotto ai piedi – come la descrive nelle sue, di lettere dal gulag, il poeta russo Terc – una lettera che ci fa sprofondare in una persona come sprofonderemmo in un fiume».
La prima persona con cui Tat’jana si confida è la sua njanja, la sua tata, la sua bambinaia. Le njanje erano donne-schiave – in Russia la servitù della gleba è rimasta in vigore fino al 1861 – che dedicavano la loro vita ad allevare i figli degli altri, nobili o comunque benestanti, coi quali il più delle volte rimanevano in stretto rapporto fino all’età adulta. Nori ci riporta il dialogo dell’Onegin fra Tat’jana e la sua njanja; praticamente ci spiega la condizione delle donne del tempo in poche righe:
«Ma tu, njanja, sei mai stata innamorata?»
«Ma cosa dici? D’amore noi non parlavamo»
«E come hai fatto a sposarti?»
«Si vede che Dio ha voluto così. Avevo tredici anni, e mio marito era più giovane di me.»
«Ah, njanja, che angoscia, mi sento male.»
«Bisogna spruzzarti d’acqua santa, bruci tutta.»
«Non sono malata, njanja, sono innamorata.»
«Bambina mia, che Dio t’aiuti.»
E la njanja fa il segno della croce alla sua bimba, innamorata e perciò “malata”, secondo lei. Tat’jana la manda via, e va a scrivere la sua lettera “esagerata”, coraggiosa e sincera, per il suo uomo.
Anche Puškin aveva la sua njanja: Arina. Era con lei nella tenuta di famiglia, nell’autunno del 1824 quando iniziò a formulare idee sull’importanza di scrivere in russo, nella lingua del popolo, per fare letteratura. Fino a quel momento infatti la letteratura russa non esisteva: i russi colti scrivevano in francese. E pensavano in francese, scrisse Puškin nella sua nota Sulle cause che rallentano il cammino della nostra letteratura. Durante quel periodo il Puškin venticinquenne trascorse molto tempo con Arina, serva della gleba, analfabeta, che non aveva mai tenuto in mano un libro se non per spolverarlo. Eppure è lei che racconta allo scrittore le storie che lo intrattenevano quando era piccolo. E lui si innamora, di quelle storie e della lingua che Arina usa per raccontarle. Da lì è iniziata la letteratura russa. Da lì è iniziato anche Dostoevskij. Proprio Dostoevskij, quarant’anni dopo, scrive che se non fosse stato per Arina, la serva bambinaia di Puškin, i russi non avrebbero avuto né Puškin né la letteratura russa.
Ad Arina è stato fatto un monumento, nella città di Pskov, dove c’era la tenuta di famiglia in cui lei raccontava le favole al poeta: una statua di una donna, una serva senza cognome, una contadina con la pezzuola in testa e gli stivali ai piedi, in tutta la sua umiltà e in tutta la sua forza scatenante.
Elena Marrassini
Immagine in alto: Puškin che legge ad alta voce a Ivan e Arina Rodionova