Quando la tenacia di una donna si fa portavoce di un’intera classe sociale e il canto diventa un modo di fare politica, un pacifico ma efficace strumento di lotta.
La voce di Rosa Balistreri è una voce risoluta, potente e incisiva, esattamente come risoluta, potente e incisiva è stata la sua vita. Nasce a Licata nel 1927 da una famiglia povera; appena sedicenne viene data in sposa a un uomo che non ama e che poi definirà «latru, jucaturi e ‘mbriacuni». Passa alcuni mesi in carcere per averlo aggredito (si era giocato tutto il corredo della figlia) e per una falsa accusa di furto. Per mantenere la figlia fa molti lavori e, dopo la seconda scarcerazione, si trasferisce a Palermo con il fratello Vincenzo per lavorare come custode di una chiesa, ma purtroppo subisce molestie da parte del prete. Decide quindi di andare a Firenze, Vincenzo apre una bottega da calzolaio e lei lavora come domestica nelle case signorili. Nei primi anni sessanta conosce il pittore fiorentino Manfredi Lombardi, con il quale vive dodici anni e che la presenta agli intellettuali dell’epoca; tra loro c’è Dario Fo. Nel 1966 Rosa partecipa a Ci ragiono e canto, uno spettacolo di canzoni popolari diretto proprio da Fo, così anche nel 1969. Nel 1971 torna a Palermo continuando a lavorare alla sua musica, una musica che è la voce del popolo. Muore precocemente a sessantatré anni, in seguito a un’improvvisa emorragia cerebrale.
Quello che colpisce di Rosa Balistreri non è solo l’intensità del suo canto, in ogni interpretazione sentito e profondo, ma soprattutto il messaggio che ogni lirica porta con sé. Canzoni folk che parlano della gente, dei sentimenti, della vita difficile. Testi coraggiosi in cui si dice che mafia e preti si danno la mano, testi di rivendicazione, di accusa, di dolore, d’amore, tutti rigorosamente in siciliano. E c’è un filo conduttore in ogni canzone, una specie di sorgente che le unisce tutte quante: la forza di Rosa. Il suo orgoglio traspare dalla potenza della voce, dal suono della chitarra, dalle parole che scrive. In Cantu e Cuntu, ad esempio, si sente forte la voglia, anzi la ferma decisione di andare oltre le brutture della vita, elencate una a una ma surclassate tutte dalla sua voglia di amore e vitalità. Bellissima è anche Quannu moru, una sorta di lascito ai posteri, una raccomandazione a non lasciar spegnere gli anni della sua lotta come portavoce dei più deboli.
«Ho imparato a leggere a 32 anni. Dall’età di sedici anni vivo da sola. Ho fatto molti mestieri faticosi per dare da mangiare a mia figlia. Conosco il mondo e le sue ingiustizie meglio di qualunque laureato. E sono certa che prima o poi anche i poveri, gli indifesi, gli onesti avranno un po’ di pace terrena.» Questo dice Rosa Balistreri in un’intervista, una donna che ha guardato in faccia il destino e l’ha sfidato, ed è con questo spirito che ha scritto, cantato e vissuto la sua vita.
QUANNU MORU
Quannu moru nun mi diciti missa
ma ricurdativi di la vostra amica
quannu moru purtatimillu un ciuri
un ciuri granni e russu,
comu lu sangu sparsu.
Quannu moru faciti ca nun moru
diciti a tutti chiddu ca vi dissi.
Quannu moru nun vi sintiti suli
ca suli nun vi lassu
mancu dintra lu fossu.
Quannu moru cantati li me canti,
nun li scurdati, cantatili pi l’autri.
Quannu moru pinsatimi ogni tantu
ca pi sta terra ‘ncruci
iu moru senza vuci
Serena Pisaneschi
Foto in alto: Rosa Balistreri