Dalla new wave degli anni ’80 fino a Carla Fracci senza distogliere lo sguardo da importanti temi sociali.
Lucia Baldini è fotografa e vive a San Giovanni Valdarno. In questi giorni è in mostra a Milano con l’Associazione Donne Fotografe con Scolpite sulla presenza, anzi assenza, della donna nella statuaria pubblica e noi non abbiamo resistito a farle qualche domanda. Forse anche più di qualche domanda, ma c’erano davvero tante cose di cui parlare.
Ci può raccontare qualcosa dei suoi esordi nel mondo della fotografia?
«Ho iniziato prestissimo, avevo quindici anni, a diciotto lo facevo già in forma professionale. Mio fratello maggiore aveva allestito una camera oscura e così ho iniziato a stampare e ad appassionarmi. Io sono diventata fotografa e lui medico. Poi sono entrata a far parte della casa discografica indipendente Materiali Sonori, di cui sono diventata socia. Erano i primi anni ’80 e frequentavo il mondo della musica, della danza, la new wave fiorentina con il suo fermento. Andavo come fotografa ai concerti di gruppi musicali che venivano in tournée in Italia, viaggiavo incrociando persone mai viste e anche mai sentite. Non sapevo neanche che foto fare, avevo vent’anni, scattavo e sviluppavo da sola, ero la spregiudicatezza fatta persona. Per la tecnica sono stata autodidatta e onnivora per quanto riguardava mostre e libri di fotografia. Ancora internet non c’era e io viaggiavo in treno per l’Italia, tante volte a Parigi, chiusa nelle librerie giornate intere a sfogliare libri, libri e libri di fotografia e di grafica, che mi è sempre interessata molto.»
Analogico e digitale sono due mondi, cosa rappresentano?
«Sono nata nell’analogico e l’ho frequentato in modo esclusivo fino al 2005, poi ho iniziato a utilizzare anche il digitale, che preferivo per i lavori più veloci. Per quelli più importanti, sui quali potevo costruire dei progetti, preferivo l’analogico, soprattutto in bianco e nero. Il digitale però ha cambiato il mio cervello. Dopo l’avvento del digitale una parte della mia mente pensava alla camera oscura e agli acidi mentre l’altra voleva provare e capire, e poi c’era anche l’uso del computer. Sono arrivata a sviluppare nello stesso periodo in parallelo progetti molto diversi fra loro usando le due diverse tecniche. Ora il digitale bianco e nero in generale mi piace poco, mi sembra un voler scimmiottare qualcosa che non è. L’analogico in bianco e nero è chimica, il digitale invece è matematica, sono pixel che vengono trasformati, è più una forma estetica che di contenuto. Su questo mi sento di diventare un po’ radicale.»
Sono parole sue «La foto giusta è quella che parla da sola»; fra i suoi scatti ce n’è uno preferito?
«Ad alcune foto occorre una didascalia, penso a quelle in ambito sociale o scientifico. Per il resto la fotografia è una forma di linguaggio, per questo credo debba parlare da sola. Ho due scatti preferiti e spesso li porto con me durante i laboratori in giro per l’Italia. Sono un po’ una provocazione, li ho fatti da giovanissima. Il primo è uno scatto sulla danza fatto in televisione. C’erano infinite difficoltà perché fotografare il tubo catodico di allora era molto complicato per tempi, esposizione e altri aspetti tecnici. Risolti quelli restava comunque la questione di dover fare una foto armonica, in cui la danza fosse bella. Non era facile e io avevo sedici o diciassette anni. Sempre dello stesso periodo è lo scatto dell’ombra del mio piede. Sono le mie preferite perché non sono ammiccanti, hanno grandi difficoltà tecniche, sono molto auto rappresentative. L’ombra del mio piede è un autoritratto a tutti gli effetti ed entrambe tendono a quell’elemento fotografico che ritengo fondamentale che è il dinamismo. Una foto per me funziona se è dinamica, perché porta con sé un pensiero, un’intuizione, un’emozione, la capacità tecnica e il guizzo di saperla fare al momento giusto. Se è statica mi viene subito a noia.»
È stata per dodici anni la fotografa di Carla Fracci che ci ha lasciato da pochissimo. C’è qualcosa del vostro rapporto che ama ricordare?
«L’incontro con Carla Fracci è stato casuale, grazie a una scommessa con un amico giornalista, e la scommessa l’ho pure persa. Lei debuttava a Verona e lui mi provocò sfidandomi ad andare a fotografarla, senza che io mi fossi mai occupata di danza classica. Come una matta andai a Verona; Carla Fracci in modo molto garbato mi disse di fare pure liberamente quello che volevo, poi il giorno dopo avremmo visto il frutto del mio lavoro. Conosceva chi mi aveva spinto ad andare a Verona e già quello era una garanzia, ma mi offrì una disponibilità inimmaginabile. A quel punto la responsabilità di fare un buon lavoro era nelle mie mani. Lavorai in apnea, ma su certi aspetti avevo le idee molto chiare. Avevo già deciso di lavorare in analogico con il bianco e nero, che mi garantiva un processo che sapevo di poter controllare. Carla Fracci aveva cinquantanove anni, non era più una ragazzina. Tutti la fotografavano a colori e con l’uso di filtri, ma io ho preferito un bianco e nero netto, volevo rappresentare non l’icona della ballerina classica sulle punte ma la donna Carla che diventava protagonista sul palcoscenico e interprete di un ruolo. Questa cosa poi l’ho coniugata sempre in tutti i lavori che ho fatto con lei. Solo in Giappone ho fatto qualche concessione al colore e al digitale. Di lei mi è rimasto il ricordo di questa sua disponibilità totale, mi ha messo nella condizione di essere responsabile di me stessa senza vincolare le mie scelte.»
Nel 2012 Lucia Baldini e Anna Dimaggio hanno creato il progetto Scarpe senza donne. È ancora attivo?
«Il progetto è andato avanti a nome mio e di Anna per circa tre anni poi, con gran dispiacere, lo abbiamo un po’ lasciato andare. Spesso veniva utilizzato il simbolo senza far riferimento a noi che lo avevamo inventato e magari veniva usato in modo superficiale. Dopo l’iniziale dolore e delusione ora siamo contente perché il simbolo è rimasto. Inizialmente lo abbiamo fatto partire con uno spettacolo teatrale durante il quale attori uomini leggevano lettere o testimonianze di donne che poi sono state uccise, la maggior parte dal proprio compagno. Sul palcoscenico c’era un numero importante di scarpe rosse che equivaleva al numero di donne morte quell’anno. Via via che ne moriva una aggiungevamo un paio. Nelle scuole abbiamo fatto partire i custodi in cammino, persone che prendevano a cura il progetto e, seguendo le linee guida del manifesto che avevamo scritto, lo applicavano con delle modalità concrete tipo aprire dei punti di ascolto, dei codici rosa al pronto soccorso o corsi di psicologia, affettività e sessualità nelle scuole. Io come fotografa e Anna attrice abbiamo dato al progetto una connotazione artistica, ma anche di contenuti.»
Per combattere il fenomeno della violenza sulle donne quanto crede sia giusto iniziare da un equo riconoscimento della figura femminile in ogni ambito?
«Credo sia molto importante. È proprio un problema culturale. Se le donne non si emancipano, non si determinano, se non viene riconosciuto loro tutto quello che sono in grado di fare e anche la fatica che hanno sempre fatto non faremo molta strada. Non sono mai stata femminista e la retorica non mi interessa, ma la differenza di salario, di possibilità, il Covid che ha tenuto a casa le donne e non gli uomini: questa è realtà, non è femminismo.»
L’Associazione Donne Fotografe di cui fa parte promuove la fotografia delle donne in Italia e nel mondo. A Milano siete in mostra a Palazzo Reale con Scolpite e state partecipando al progetto Wall Zine con una prima performance di affissione del 19 giugno 2021 su un muro in Via Corelli. Ci sono quindi le donne nella fotografia italiana?
«La fotografia in Italia culturalmente è soprattutto maschile. Nella storia più recente per fortuna ci sono sempre più donne e credo che la fotografia, anche se non mi piace generalizzare, sia molto femminile. Non perché la donna abbia uno sguardo diverso o più sensibile ma soprattutto perché ha molto da dire, molto più dell’uomo, essendo rimasta trattenuta per tanto tempo. Per questo credo che in questo campo le donne possano realizzarsi molto bene. Ci sono tantissime giovani fotografe che propongono cose interessanti grazie a un’agile strumento, che volendo si può approfondire, con il quale è possibile sperimentare e far venir fuori quello che si vuole raccontare.»
Quale consiglio darebbe a una giovane donna che volesse intraprendere oggi questa professione?
«È un mestiere che ha tanti inganni e illusioni, ma è straordinario se uno lo vive come una forma terapeutica. Se al lavoro si affianca lo scavo di se stesse è uno strumento eccezionale. Viverlo come un lavoro estetico, di puro effetto modaiolo e accattivante, magari sarà anche un successo, ma secondo me si perde un’occasione.»
Progetti futuri ?
«Ne ho alcuni. Ora quello più importante è il Progetto Gaia la nuova umanità, sulla connessione fra uomo e natura. È partito un anno fa e insieme a tre performer e un fotografo stiamo facendo delle tappe in giro per l’Italia, l’ultima tappa sarà sul Mar Morto. L’intento è di raccontare il forte momento di trasformazione che tutta l’umanità sta vivendo, con particolare attenzione alla vita sostenibile. Per farlo stiamo vivendo a contatto diretto con la natura, facendo tappe in realtà ecosostenibili come gli ecovillaggi, dove ci dedichiamo alla ricerca artistica. Un lavoro molto concentrato sulla nudità perché è un elemento di coerenza con la natura, non è una forma estetica o ammiccante. Tutto il materiale che stiamo raccogliendo diventerà una performance, ma anche un video documentario e un progetto fotografico. Altro aspetto interessante di questo progetto è che gli altri sono trentenni e io no, un’ulteriore sfida di tipo generazionale.»
Ringraziamo Lucia Baldini per il suo tempo e per la bella chiacchierata. Siamo tornate indietro negli anni senza perdere lo sguardo ottimista verso il futuro. Nuovi scatti la attendono, noi non mancheremo di seguirla, voi potete farlo qui dove troverete tanti altri spunti interessanti.
Paola Giannò
Foto in alto: Lucia Baldini – Foto di Fabio Sau