Quando la scrittura supera ogni barriera e diventa strumento di reinserimento sociale. La narrazione del proprio vissuto che diviene opportunità di conoscenza, di riflessione ed emancipazione.
Monica Sarsini è nata a Firenze, dove vive e lavora come scrittrice e artista visiva. Questo cita la sua biografia, in realtà c’è molto altro. In quel bar bruttino affacciato su una strada trafficata che ha fatto da sfondo al nostro incontro abbiamo parlato di tante cose e ho conosciuto una donna dalla sensibilità speciale e davvero oltre il consueto. Mi ha confidato di aver sempre scritto, nel tempo ha scoperto la carta come forma artistica, ma si è sempre identificata con la scrittura. Sentirle raccontare i suoi esordi in questo campo, il suo incontro con la persona squisita che era l’editore Vanni Scheiwiller e i pomeriggi trascorsi in compagnia di Romano Bilenchi, hanno avuto un sapore un po’ antico. Le sue parole come per magia mi hanno trasportata in un salotto letterario di quelli che temo non esistano più. La sua attività come scrittrice è iniziata nei primi anni ottanta ed è stata prolifica. Quello che più mi ha più colpita è come abbia messo questa sua capacità a disposizione degli altri. Ha iniziato con i corsi e laboratori di scrittura per bambini e ragazzi, proseguito con quelli organizzati dal Giardino dei ciliegi fino ad arrivare a quelli tenuti all’interno del carcere fiorentino di Sollicciano.»
Quando e come ha iniziato a tenere corsi di scrittura in carcere?
«Il progetto Scrivere in carcere è nato nel 2007. Era rivolto ai detenuti della sezione maschile ed era tenuto da Enzo Fileno Carabba, con cui collaboravo per i corsi di scrittura creativa del Giardino dei ciliegi. Inizialmente ero molto intimorita dall’idea di ritrovarmi a lavorare in carcere, soprattutto nella sezione maschile. Poi per una serie di eventi non ho avuto possibilità di scelta e mi sono ritrovata a far lezione due volte a settimana, per due, tre ma anche quattro ore.»
L’attività era prevista solo nella sezione maschile ?
«In principio si, perché era quella dove veniva già svolta l’attività scolastica, c’erano strutture adatte allo scopo, le aule, la biblioteca. Nella sezione femminile tutto questo mancava. Con il tempo però siamo riusciti ad estendere il progetto anche alla sezione femminile sempre in collaborazione con l’Associazione Il giardino dei ciliegi. Insegnavo alle detenute una volta a settimana per circa tre ore. Il corso ha interessato tante detenute, comprese donne straniere. L’alternanza o la discontinuità nella loro presenza erano dovute principalmente alla conclusione della pena, al trasferimento in altro Istituto o a motivi di salute. Il corso prosegue ancora oggi grazie al contributo dell’Arci dal 2015.»
Come si svolgono le lezioni?
«Le ho sempre concepite come laboratorio di lettura e scrittura, cercando di avere un continuo coinvolgimento delle partecipanti e costantemente verificavo i risultati. Durante ogni incontro le detenute consegnano i testi dei loro racconti, che leggiamo e discutiamo in classe. Qualcuna ha maggiore familiarità con la scrittura e la lingua italiana, ma ce ne sono anche con minori competenze. C’è chi è disabituata a scrivere, chi ha competenze grammaticali e sintattiche incerte, chi viene da altri paesi, in questi casi vengono forniti testi di supporto anche in doppia lingua. In classe svolgiamo anche esercitazioni mirate a stimolare l’associazione libera, la creatività, la consapevolezza di sé e delle proprie emozioni.»
Quali effetti ha avuto il corso di scrittura per le detenute?
«Ha prodotto ottimi effetti, sia sul piano personale che su quello relazionale. La scrittura permette momenti di riflessione, di rilettura del proprio vissuto e crea condizioni per un percorso di recupero personale e psicologico. Dal punto di vista relazionale si realizza un’abitudine all’ascolto, al rispetto della molteplicità dei punti di vista, la condivisione di una esperienza creativa comune, maggiore fiducia dell’una con l’altra e uno sviluppo della responsabilità reciproca. Il corso ha anche favorito un clima di maggiore solidarietà tra le detenute. Ad esempio Alessia ha scritto quello che Clara, meno alfabetizzata, le raccontava. Una detenuta nella sezione trans ha aiutato Kimberly, brasiliana, a trascrivere il suo racconto in italiano. Scrivere permette di riesaminare il proprio interiore ed è di aiuto nel loro difficile itinerario di riabilitazione. Il corso offre l’occasione di nutrire e appassionare persone che spesso sono demotivate e scoraggiate dall’esistenza condotta prima e durante la detenzione.»
Le sue allieve hanno imparato a scrivere quindi?
«Certo! Una volta acquisita consapevolezza e fiducia nel proprio patrimonio espressivo hanno raggiunto un buon livello di conoscenza della lingua e una certa abilità di scrittura. Da brevi testi siamo via via passate a testi più complessi e approfonditi. Questa attività ha permesso loro di migliorare le loro abilità di scrittura ma anche di lettura.»
L’esperienza è stata quindi positiva?
«Si, direi che è pienamente riuscita. Negli anni con gli scritti delle detenute sono state pubblicate due antologie, entrambe edite dalla casa editrice Le Lettere: Alice nel paese delle domandine, dove si affrontano in modo originale e comunicativo gli aspetti pratici, relazionali e psicologici della vita in carcere, i rapporti tra detenute, il cibo, la salute, le prospettive per il futuro, il panneggio. L’altra è Alice, la guardia e l’asino bianco, in cui vengono narrate vicende che vedono coinvolte le detenute con ciascuna delle presenze che abitano il carcere: il direttore, il dentista, la ginecologa, gli animali, le ispettrici.»
Cosa dicono di tutto questo le sue allieve?
«Ne sono molto soddisfatte. Hanno scoperto doti che non pensavano di avere, ma c’è molto altro. Grazie a queste pubblicazioni hanno avuto l’opportunità di uscire dal carcere per presentare in pubblico il loro lavoro. Si sono rese conto di persona dell’emozione che il libro ha suscitato e del dibattito che ne è seguito. Questo è stato un ulteriore incentivo a frequentare i corsi. Credendo in se stesse hanno migliorato ancora il livello di consapevolezza e di tecnica espressiva. Hanno potuto partecipare anche a vari concorsi letterari a livello nazionale e alcune di loro si sono distinte come vincitrici. Dai un racconto di una di loro, Alice Costagli, è stato tratto un corto che è andato in onda sulla terza rete e un altro dei suoi racconti è stato pubblicato sulla rivista L’Asino a cura di Goffredo Fofi.»
La scrittura è uno strumento utile al reinserimento sociale ?
«Certamente! Il tempo ha anche permesso di portare il mondo esterno nel carcere. Il corso maschile è stato infatti aperto anche a persone esterne al fine di creare uno scambio attivo e significativo tra due mondi separati. Tra i banchi accanto ai detenuti si sono così seduti donne, uomini, studenti universitari ai quali venire a conoscenza del mondo carcerario ha provocato una riflessione profonda. È stata un’esperienza formativa per tutti e non ha limitato la libertà nelle narrazioni. Oltre ai corsisti esterni ogni anno ho invitato scrittori, filosofi, professori universitari, poeti a tenere una lezione, tra i quali: Wu Ming, Angelo Ferracuti, Roberta Mazzanti, Paolo Maccari, Valerio Aiolli, Paolo Hendel, Giulia Caminito, Simona Baldanzi, Rosaria Lo Russo, Ernestina Pellegrini. Le detenute e i detenuti hanno partecipato a numerosi concorsi letterari rivolti ai detenuti delle carceri italiane, classificandosi quasi sempre tra i primi e vincendo così numerosi premi in denaro, cosa di cui hanno veramente bisogno. La maggioranza di loro vive in condizioni di indigenza, ma anche pubblicazioni, un computer, pacchi alimentari, una targa che non è stato consentito tenere in cella perché considerata un oggetto contundente, oltre ad aver conquistato maggiore stima di sé e rispetto da parte degli altri.»
Con la pandemia tutto questo si è interrotto?
«Per fortuna il corso è continuato, durante la zona rossa abbiamo lavorato tramite posta e anche grazie al contributo di alcune figure davvero autorevoli, quali Padre Bernardo Francesco Gianni, Tommaso Montanari, Ubaldo Fadini, Giorgio Van Straten, Anna Scattigno, Neri Pollastri, Sergio Vitale. Mi sento di poter dire che in carcere nonostante la tragedia mondiale che ci ha travolti è proseguita un’attività culturale invidiabile, ricca di qualità e umanità, considerato poi anche che nessuno di loro ha preteso compensi.»
Mi pare di capire che questa sua attività in carcere sia piuttosto impegnativa?
«Non sbaglia. Oltre a tenere e preparare le lezioni sono io che mi sono occupata di riscrivere tutti i loro testi al computer, che le detenute non hanno, per poterli predisporre per la stampa. Mi sento però di ringraziare tutte le persone recluse che hanno avuto fiducia in me. La loro presenza nella mia vita è diventata così importante da motivarmi a scrivere il libro Io e Agnese edito dalla casa editrice Vita Activa di Trieste, con il quale ho vinto il premio speciale per la letteratura come importanza nel sociale.»
Le attività di Monica Sarsini sono davvero tantissime ed eterogenee. Noi non possiamo far altro che attenere con ansia di poterla incontrare ancora alla sua prossima mostra, magari di nuovi teatrini, o alla presentazione del suo prossimo libro. Se volete contattarla qui sul suo sito trovate i riferimenti utili.
Paola Giannò
Foto in alto: Monica Sarsini
Monica è un raggio di sole tra tutto quel grigiore che ti trabocca dagli occhi e dai pensieri. Insieme a lei, da dentro un carcere, ho potuto essere libera.