Da una «copywriter ininfluente», come si autodefinisce l’autrice, il racconto breve ma intenso, già pubblicato sul primo numero della nostra rivista, che riproponiamo anche sul blog.
Dorina si specchia nei resti di una pozzanghera. Oggi a scuola l’hanno presa in giro per la peluria scura intorno al labbro. Lo sapeva già da sola, mica è scema. Non può chiedere a suo padre i soldi per comprarsi una crema per depilarsi, quello si infuria subito.
Una volta ha provato col rasoio, su una gamba. Qualcosa non ha funzionato: come fanno le altre? Un lembo di pelle si è staccato e ha visto decine di puntini rossi gonfiarsi fino a diventare una goccia tonda che le è rotolata sulle calze come una lacrima. Mica può farlo sul viso, con il rischio di diventare ancora più brutta di quello che è.
Si sdraia nel prato umido di primavera e guarda il cielo, succhia uno stelo d’erba. Ma appena sembra essersi pacificata, sente qualcosa che le sfiora una gamba. Si alza a sedere di scatto. Amedeo le ha sollevato un pantalone fino al ginocchio e ora ride come un pazzo mentre si catapulta giù per le rive erbose in uno slalom tra le mucche.
«Pelosaaaaaaa, sei pelosaaaaaa!»
Dorina avvampa. Si alza di scatto.
«Ame, sei uno stronzo! Se ti prendo, ti ammazzo.»
Ma il fratellino è troppo agile perché lei lo possa raggiungere. La rabbia e la vergogna si sommano a quelle che ha provato a scuola: non è facile essere la figlia del margaro. Il fango intorno agli scarponi, l’odore di letame che non va via, gli abiti consunti. Alle elementari, almeno, era stata intelligente. La prima della classe. La odiavano per quello, però la rispettavano. Adesso non le interessa più. A volte si porta i libri su all’alpeggio e prova a ripetere la lezione mentre controlla Amedeo e guarda che le mucche non si allontanino. Ma poi si stufa, scrolla le spalle. A che le serve studiare? Quest’anno è l’ultimo di scuola dell’obbligo. Il suo futuro è tutto lì, tra vacche e pascoli.
Suo fratello sembra già essersi stufato dello scherzo, ora corre dietro a una farfalla: ma Dorina non ha dimenticato l’offesa. Quando Amedeo è a portata di tiro, afferra un bastone e lo lancia con tutta la forza delle braccia. Non pensa che se lo colpisse gli potrebbe frantumare il cranio. È solo un bambino. Non ha ancora sette anni. Ma il piccolo percepisce il movimento, tant’è che riesce a schivare il bastone. Cade a terra, scoppia a ridere, mima una nuova presa in giro. Il legno si schianta contro il sedere di una mucca con uno schiocco di frusta.
«Scema, hai preso la pezzata. Lo sai che quella è più matta di te.»
La mucca è furibonda. Si scuote, rovescia il filo del pastore elettrico, corre verso la strada. Si infila nel canalone che porta al torrente. Sparisce.
«Bel casino che hai combinato!»
«Io? Ma se sei tu che l’hai colpita. Adesso lo senti papà.»
«Stai zitto. Adesso torniamo a casa.»
«Ma papà?»
«Quella vacca è matta. Gli dico che l’ha spaventata un camion ed è scappata.»
«Ci ammazza. Stavolta ci ammazza.»
«Ame, stai zitto o ti ammazzo io.»
Il bambino protesta ancora un po’. Sono solo le cinque, non ha voglia di rientrare in casa ad annoiarsi. Ma Dorina ha deciso: si torna giù. Raccoglie il bastone, con pochi gesti precisi indirizza le mucche: in meno di mezz’ora arrivano a casa. La pezzata non si è più vista.
Le ore passano. Il fuoco è acceso, la cena in tavola. Sentono la porta sbattere. È un tonfo che sa di guai. Il rumore dei passi arriva da lontano, al rallentatore. Pietro avanza lentamente, lo sguardo bieco. Dorina riconosce i segni della tempesta: sente il puzzo di vino del fiato, intuisce il baluginio dell’occhio destro.
«Dora! Che. Cazzo. Hai. Combinato!»
L’uomo espelle le parole con sottili schizzi di saliva. La figlia non prova a rispondere. Lo sguardo è fisso sul tic dell’occhio di suo padre. Conosce bene quell’intermittenza. Le ricorda le luci fredde del neon quando stanno per bruciarsi. Ne prevede il suono: un pop sordo, simile a quello di un uovo che si schianta a terra. Immagina l’occhio che implode. Lo vede colare in una massa bianchiccia come quella dell’albume, la vischiosità del sangue è quella del tuorlo. Le parole occhio di bue le risuonano nella testa. Suo padre è il bue, la pupilla l’uovo da perforare.
Lo immagina cadere a terra, scuotersi nell’ultimo sussulto, prima di giacere per sempre nell’umidità dei suoi liquidi. Niente a che vedere con la scena asciutta in cui si è spenta sua madre. Composta, immobile, detersa nel letto immacolato e nel pallore quasi sterile.
«Una cosa dovevi fare. Una! Guardare dodici mucche. Anche un cane lo sa fare. Tu, invece, no. Ti sei persa la pezzata. Ho girato come uno stronzo fino adesso per recuperarla.»
La ragazza ha ancora lo sguardo puntato sull’occhio di suo padre. Non vede la mano partire, non può avere i riflessi pronti per proteggersi. Il palmo calloso la prende in pieno viso, le ruota la testa indietro, come un pupazzo.
La prima cosa che percepisce è il calore. La rabbia e la vergogna potenziano l’effetto dello sfregamento della mano sulla guancia. Il dolore arriva dopo, come se il cervello necessitasse di un tempo lungo per registrare le sensazioni, un ingorgo di sinapsi. Amedeo parte alla carica. Si aggrappa alla gamba del padre e spinge, scalcia senza una vera finalità.
Pietro vede una specie di chihuahua agganciarsi ai suoi pantaloni, uno di quegli stupidi cagnetti da salotto che ti si strusciano addosso per giocare o quando sono in calore. Gli sferra un calcio furibondo, ma non è un cane: è suo figlio. Gli apre il labbro con lo spigolo del ginocchio. Amedeo cade a terra esterrefatto, zuppa la mano di sangue. Si muove tarantolato, mugugnando. Solo la vista del sangue riporta l’uomo alla ragione.
«Amedeo, cosa ti sei fatto? Lasciami guardare.»
Il bambino non si fa avvicinare. Dora si china a terra, gli accarezza la testa, lo calma. Pietro si infuria di nuovo.
«Arrangiatevi, siete due piccoli stronzi.»
Se ne va in camera, sbatte la porta. Bestemmia, urla qualche parola sconnessa. Singhiozzi, poi silenzio. I due fratelli restano a terra abbracciati, finché dall’altra stanza si sente un leggero russare. Dora prova ad alzarsi. Solo allora Amedeo scoppia in un pianto misto di sangue, lacrime e saliva.
La sorella lo prende in braccio come una madre. Lo porta in bagno, lo fa sedere sul water. Tampona il labbro con un asciugamano pulito, gli lava via il sangue che inizia a rapprendersi.
«Non è niente, non servono punti» dice con una competenza che non sa di non avere.
Lui ora piange in silenzio: è solo uno scorrere di lacrime senza rumori. Dora lo prende di nuovo in braccio. Si siede a sua volta sul water. Lo culla. Gli canta una nenia a bocca chiusa finché il fratellino si addormenta.
La ragazza rimugina la sua vendetta: un vaso che cade dalla mensola? Un incidente in montagna? A chi importa di un margaro alcolista?
Il problema non è la galera, né il rimorso. Il problema è quell’occhio che le trema senza riuscire a piangere. Il tic di suo padre che ora è diventato il suo. Dovrebbe uccidere se stessa per estirparlo.
Rimane così, immobile, ad abbracciare suo fratello. In attesa che il neon si spenga e che la notte abbracci anche lei.
Laureata in Lettere Classiche nel secolo scorso, oggi Silvia Algerino lavora per il web come copywriter e creativa. Si autodefinisce una «copywriter ininfluente». Autrice nel 2017 del romanzo Come se fossimo già madri (bookabook), racconta di scrittura e di lettura dal suo blog silviaalgerino.com. Vive con un marito, due figli e un gatto in una casa ai confini del bosco.