Martina Biagi: superare il confine con la regista di “Io sono”

martina biagi
Un documentario e un progetto omonimo per raccontare il mondo delle malattie rare e delle trisomie, perché nessuno si senta solo.

Martina Biagi è la regista di origini toscane del documentario Io Sono, che è parte di un progetto omonimo che rappresenta anche molto altro. Abbiamo pensato di incontrarla e grazie a una videochiamata siamo riuscite a fare una bella chiacchierata nonostante gli ostacoli dei mille impegni e della lontananza.

Martina, ci può raccontare quando e come è nato il progetto Io sono?

«È nato nel 2015 quando mia zia Lucia mi chiese di fare delle fotografie a mia cugina Sonia per presentarle a un contest sulle malattie rare. Sonia ha un’anomalia cromosomica rara: la trisomia 9 a mosaico. La mutazione cromosomica causa gravi malformazioni al sistema nervoso, cardiaco, respiratorio e ritardo mentale, ma i sintomi variano molto da caso a caso. Sonia era praticamente unica, come disse ai genitori la neuropsichiatra infantile al momento della diagnosi, anche per questo manca un modello terapeutico di riferimento. Quella foto per il contest mi ha permesso di conoscere più a fondo la storia di Sonia. Per me che ho sempre amato le storie, da guardare, ascoltare e leggere, è stata una cosa del tutto spontanea volerla raccontare.»

Dopo quella prima foto cosa è successo?

«Ho pensato di coinvolgere l’amico e fotografo Emiliano Cribari, con il quale avevo avviato la mia formazione nel settore cinematografico nell’ambito della produzione indipendente Le cose che so di me. Con Emiliano abbiamo trascorso una giornata intera con Sonia, scrivendo e fotografando. Da quella giornata è nata una mostra che, attraverso un percorso sui binari paralleli della parola scritta e delle immagini, ha portato la storia di Sonia in giro per l’Italia.»

Eravate contenti del risultato raggiunto?

«Sì, molto, ma non bastava. Ora Sonia ha dodici anni ma in principio internet e i social non erano diffusi come ora. Parlando con mia zia Silvia, che negli anni successivi è poi venuta a mancare, ho avvertito forte la sua necessità di parlare con altre persone, di confrontarsi, di cercare altre realtà che in qualche modo somigliassero a quella che stavano vivendo. Sentirsi soli non è mai una bella sensazione. Silvia aveva provato a fare qualcosa creando la pagina Facebook Trisomia 9 a mosaico, grazie alla quale era stata contattata da una mamma di Nizza Monferrato; per sua figlia Margherita avevano ricevuto la stessa diagnosi. La prima volta che le bambine si sono incontrate è stata davvero un’emozione incredibile e ci ha confermato che dovevamo proseguire la strada che avevamo solo avviato.»

Cosa avete pensato di fare?

«Dopo le mostre abbiamo fatto un libro che è uscito a novembre 2017. Sono 180 pagine di testimonianze fotografiche di otto bambini, otto diverse storie di trisomia 9 a mosaico che hanno lo scopo di diffondere la conoscenza di questa malattia rara. Il libro è acquistabile anche direttamente dal sito Io sono, il ricavato è a sostegno del progetto. Quando abbiamo iniziato a girare l’Italia con le mostre e poi con il libro abbiamo aperto un crowfunding per coprire almeno le spese di viaggio e devo dire che l’immensa generosità, talvolta anche anonima, di chi ha contribuito è stata una sorpresa meravigliosa.»

Come sei arrivata poi a pensare di realizzare un documentario?

«Durante questo percorso, che abbiamo sintetizzato ma è durato qualche anno, la dottoressa Elisabetta Lapi, la pediatra genetista che seguiva Sonia, mi suggerì di contattare negli Stati Uniti la dottoressa Debora Bruns. È ricercatrice dell’università di Carbondale (Sud Illinois) e ideatrice del Tris Project, il più importante progetto di raccolta dati sulle trisomie 13 e 18. Dopo tantissime videochiamate sono finalmente andata a conoscerla di persona nel luglio 2019. Mi aveva invitata a presentare il mio progetto a quella che chiamano Soft Conference, giornate dedicate alle famiglie e ai loro figli con trisomie. L’idea del documentario mi è venuta per raccontare proprio questo viaggio che è stata una bellissima esperienza. Non volevo che tutto quello che vedevo con i miei occhi andasse perso, sentivo che anche in Italia quelle esperienze preziose dovevano essere rese disponibili. È stato un lavoro molto faticoso, anche per il coinvolgimento emotivo che ha comportato, e perché ho fatto tutto da sola. Al rientro mi sono fatta aiutare per tutta la parte di lavoro che restava da fare. Il suggerimento della dottoressa Lapi di cercare la dottoressa Bruns per unire il mio approccio umano e umanistico al suo medico e formativo è stato molto utile.»

Questo però non è il suo lavoro, di cui non abbiamo ancora parlato. Come riesce a conciliarlo con il progetto?

«Infatti non sempre riesco. Vorrei integrare il progetto con molte altre informazioni utili, per ora si fa quel che si può. Ancora non posso anticipare niente, ma spero al riguardo di avere belle novità a breve. Il mio lavoro mi impegna molte ore al giorno, spesso lontano da casa. Di professione sono una segretaria di edizione, cioè colei che assiste il regista per garantire la memoria del film. Le scene vengono girate in momenti diversi e se non ci fosse quello che in inglese si chiama script supervisor (il supervisore della sceneggiatura) si rischierebbe di commettere errori imperdonabili e la storia perderebbe la sua continuità. Che ho sempre amato le storie ve l’ho già detto e credo che far sognare le persone sia un bellissimo mestiere.»

Quali doti sono richieste a una segretaria di edizione?

«Occorre essere molto organizzate, pazienti e sapersi rapportare con tante persone restando fermi e pacati. Non ci si rapporta solo con il regista, che per la maggior parte dei casi è uomo, ma anche con la troupe e molte altre figure professionali. È un ruolo delicato e, non credo sia un caso, molte di noi sono donne. In Italia su un centinaio di script supervisor gli uomini mi pare siano solo un paio. Siamo inquadrate come dipendenti ma ogni volta a tempo determinato. Siamo una delle tante figure presenti fra i lavoratori dello spettacolo che in questi mesi di pandemia non hanno lavorato.»

Dopo l’esperienza di regia del documentario come vede Martina Biagi il suo futuro?

«Lavoro già nel comparto regia e in questi anni ho imparato tantissimo. Mi piace molto il genere documentaristico ma anche la fiction e spero di potermi cimentare di nuovo. Quello che mi appassiona di questo mestiere è la possibilità che offre di lavorare in ambiti diversi. Ogni film è un mondo ogni volta nuovo tutto da scoprire. Sono sempre stata una persona curiosa e credo che il cambiamento comporti sempre un rinnovamento, anche come essere umano.»

A cosa sta lavorando in questo periodo?

«Ho lavorato a una fiction che uscirà per la Rai, e come docente di edizione di Master di video editing presso l’Università di Roma La Sapienza, per corsi di continuità e altri brevi poi alla Civica scuola di cinema Luchino Visconti, attualmente sto girando un film per Netflix a Verona.»

Di come le donne nel cinema esistano ne abbiamo già scritto qui, Martina Biagi è un altro dei tanti esempi e noi continueremo a seguire le vicende del suo bellissimo progetto e potremmo anche stupirvi con delle belle sorprese. Quindi, restate collegati!

Paola Giannò

Foto in alto: Martina Biagi

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