Finalmente in libreria, dopo una ristampa già prima della sua presenza fisica nei negozi a causa del gran numero di preordini, l’ultimo libro della casa editrice Tlon.
Molte sono le voci raccolte in Anche questo è femminismo, l’ultimo saggio pubblicato dalle edizioni Tlon, voci che danno tanto e aprono occhi e mente. Un lavoro a più mani con introduzione di Irene Facheris e curato da Alessandra Vescio e Biancamaria Furci, redattrici di Bossy, associazione no profit dal 2014 che si occupa di parità multilivello, ovvero di provare ad abbattere tutti quegli stereotipi in cui la nostra società è ancora immersa, anche se troppo spesso si vanta di non esserlo.
Qui dentro parlano Rachele Agostini, Francesca Anelli, Belle di faccia (Mara Mibelli e Chiara Meloni), Virginia Cafaro, Sara Colognesi, Marina Cuollo, Eugenia Fattori, Biancamaria Furci, Lorenzo Gasparrini, Benedetta Geddo, Jacklin Faye, Arianna Latini, Mc Nill, Attilio Palmieri, Marina Pierri, Sofia Righetti e Alessandra Vescio.
Che dire, a me questo libro ha aperto letteralmente una fetta di mondo. Sarà che la parola femminismo mi era un po’ venuta a noia, come del resto anche maschilismo. Sarà che l’ho spesso liquidata come “cosa del passato”, portatrice di progresso e di vittorie importanti delle quali io, fortunata, avevo sempre goduto.
Che poi in fondo mi sembrava di essermi sempre difesa con onore dai pochi attacchi ricevuti, fin dall’infanzia trascorsa in periferia, circondata solo da amici maschi, per proseguire poi come adolescente in un istituto tecnico industriale e poi all’università e in seguito al lavoro, sempre in mezzo a una maggioranza numerica di maschi e a poche colleghe, ma sentendomi sempre “come i maschi” (e già qui forse mi sarei dovuta domandare un po’ di cose, guardando oltre il mio naso). Eppure.
Eppure i tipi di Tlon mi hanno mostrato che femminismo può essere, può diventare e forse è già tante cose assieme. In questi quindici capitoli è stato tutto un susseguirsi di domande, e ad alcune ho trovato pure risposta, pensate un po’. Ad altre ancora no, ma almeno me le sono poste per la prima volta, e di sicuro un libro che riesce in questo intento è un libro che vale.
La lettura si apre con un capitolo dedicato all’abilismo, introducendo a quelli che sono gli FDS (Feminist Disability Studies). Cosa accade alle donne con disabilità, ovvero cosa succede quando l’intersezione fra appartenenza a un genere e disabilità non è vuota? Perché succede eccome, e se ne parla così poco. Si racconta sempre una storia e una sola, accorpando tutto in un unicum che rende invisibili sfumature che forse tanto sfumature non sono: «Raccontare un’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia» (pag. 14, da una citazione di
Chimamanda Ngozi Adichie).
Il femminismo classico ha mai approcciato il problema? «Le donne ritenute “abili” lottano contro l’ipersessualizzazione, in modo che il loro corpo non sia oggettificato e ipersessualizzato per il piacere maschile, e si battono per emanciparsi dal ruolo di madre e angelo del focolare, affinché il loro valore di persone non sia collegato a stereotipi. La maggior parte delle donne senza disabilità, che coincide con quelle più rappresentate e con minori svantaggi sociali, ha però il privilegio di scegliere se ipersessualizzare il proprio corpo o meno, se diventare madre o meno.» (pag. 22)
Le donne con disabilità possono scegliere? «Le donne disabili stanno ancora lottando per la validità sessuale del loro corpo, contro la desessualizzazione in cui è sempre stato confinato.»
Ecco dunque la necessità di un femminismo intersezionale, della lotta da mettere in atto per trasformare il femminismo classico (eccolo, forse, il sapore “antico” che questa parola mi ha sempre richiamato alla mente) in un femminismo intersezionale, che si occupi delle persone tutte, indipendentemente dal loro genere, dalla loro provenienza, religione o cultura di appartenenza, dal loro orientamento sessuale.
E questa in fondo è l’epitome dell’intero libro, che prosegue con lo srotolarsi di capitoli uno più interessante dell’altro, nei quali l’impegno richiesto per leggerli è sempre ripagato dall’apertura e dalla conoscenza che dona.
Negli ambienti del femminismo classico i corpi grassi sono accettati? Oppure anche lì «il corpo ha la funzione di stabilire chi siamo in quanto persone» e quindi anche lì le persone grasse sono marginalizzate? «In quest’ottica, il corpo grasso assume un valore simbolico. Esso incarna un fallimento morale e sociale» (pag. 36). È così dappertutto?
E riguardo al razzismo? Razzista non è solo chi dice ne*ro e spesso carica il femminile ne*ra di sottintesi e appellativi anche peggiori: «il razzismo si trasforma insieme alla società. Una società che si trasforma (in questo caso con accezione negativa) presentando nuove problematiche dal punto di vista sociale ed economico, avrà anche nuove forme di razzismo» (pag. 39). Come ad esempio la totale mancanza di rappresentazione di alcune minoranze, ma anche i cosiddetti bias: «Facciamo un esempio pratico: fin da bambinǝ, la società ci dice che le donne prima di ogni altra cosa sono predisposte soprattutto al lavoro di cura. E nello svolgere lavoro di cura non c’è niente di male, se non fosse che gli uomini vengono invece ritenuti inadatti a tale ambito. E questo sulla base di qualche teoria o evidenza scientifica? No, siamo davanti a un bias. Credere che un padre non possa assolvere agli stessi compiti di una madre, è un bias (ed è pure un bias sessista)» (pag. 40).
Razzismo è rendere invisibili i diversi dalla maggioranza, anche se rappresentati da associazioni e organizzazioni più o meno riconosciute (appunto), come ad esempio le comunità LGBTQIA+: «Quando una persona non rientra nei binari, l’unica cosa da fare è sottometterne la soggettività attraverso numerose forme di discriminazione come l’invisibilizzazione. La società sa che esisti, ma finge di non vederti» (pag. 68).
Accade persino nel fenomeno del momento: le serie tv, come analizza Marina Pierri, riportando numeri e statistiche, e come scrivono Fattori e Palmieri nel capitolo successivo, con una considerazione fra tutte che la dice veramente lunga: «Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (1979) per la critica e per la storia del cinema non è solo un ottimo film di guerra, ma anche un viaggio universale nell’abisso dell’essere umano, una discesa agli inferi che mostra la natura del male. Tuttavia, per lo stesso ragionamento, un film come Lady Bird di Greta Gerwig (2017), pur essendo stato unanimemente apprezzato, rimane una storia intima e un racconto femminile sul passaggio all’età adulta senza valore universale» (pag. 78).
In questo libro non mancano inoltre i riferimenti al presente più attuale, permeato dalla pandemia da Covid-19 e a quanto questo evento abbia acuito alcune (tante) disuguaglianze, a partire da quelle di classe sociale. Femminismo intersezionale è anche questo: il classismo c’è, è lì dove è sempre stato, solo ha assunto forme che meglio si adattano alla società odierna capitalistica, dove il divario fra ricchi e poveri passa attraverso i concetti di meritocrazia e successo, attraverso i nuovi lavoratori flessibili che però devono essere flessibili solo loro, talmente flessibili che spesso si spezzano, anche morendo sul lavoro.
Ecco quindi che il femminismo intersezionale deve propagarsi anche in questioni di politica interna (analizzando ad esempio il fenomeno dell’ostracismo al ddl Zan, per rimanere nell’ambito dell’attualità italiana) e politica estera. Ad esempio negli USA esso studia le disparità di trattamento giudiziario, guarda agli invisibili, agli “ultimi” che sono poi sempre i soliti, complici i mass media e, come detto sopra, l’industria hollywoodiana.
Persino questioni come il cambiamento climatico possono e devono essere viste dal punto di vista del femminismo a tutto tondo, in quanto a cambiare assieme al clima sono le dinamiche di potere e i meccanismi del profitto a ogni costo, sempre e comunque a svantaggio di alcune popolazioni dei paesi in via di sviluppo e soprattutto delle loro donne, guarda caso.
Il libro procede poi affrontando altri temi di cui si parla, se possibile, ancora meno, in quanto poggiano su degli assunti ormai dati per “assodati”: gli stereotipi in campo sportivo e in quello della salute mentale: «Una gamba rotta è più meritevole di empatia e comprensione della depressione solo perché è visibile e tangibile? Certamente no. La sofferenza è sofferenza, sia che appaia evidente su una radiografia sia che possa essere compresa solo attraverso la narrazione di chi ci convive.» (pag.161).
Conclude infine con un trattato breve e sincero (forse proprio perché scritto da un uomo, Lorenzo Gasparrini) sul maschilismo tossico e su quanto questo possa nuocere, incredibilmente, ai maschi, gettandoli nella privazione, nello scontento e troppo spesso nella solitudine.
In un libro così ricco di domande e di risposte non potevano certo mancare le anticipazioni, con un occhio attento a quello che è l’underground delle correnti di pensiero attuali: si parla dunque di un manifesto online, tradotto già in diverse lingue e consultabile gratuitamente, che sta cavalcando l’onda tecnologica per portare alla luce del mondo quella che potrebbe essere veramente la quinta ondata femminista della storia, chiamata xenofemminismo e progettata sul continuo esercizio alla ricerca delle complessità, per fare in modo che nessuno, ma proprio nessuno, rimanga “fuori”: nemmeno io, che non riesco a scrivere con lə schwa, è più forte di me, ma non per questo non mi sono sentita “dentro” a tante parti di questo libro.
Elena Marrassini