La legge licenziata all’unanimità, in tempi record, e salutata con grande entusiasmo servirà sul serio a garantire l’uguaglianza retributiva?
Lo scorso 26 ottobre il ddl sulla parità salariale tra uomo e donna è stato approvato all’unanimità al Senato, dopo soli quindici giorni dal suo passaggio alla Camera. Un fatto eccezionale che dimostra come il Parlamento abbia fatto sue le istanze di giustizia sociale delle donne riconoscendone l’urgenza. O forse, più semplicemente, lavoro e parità di genere sono oggettivamente i due capisaldi per l’uscita dalla crisi pandemica e per la crescita del Paese.
Dopo l’entusiasmo iniziale e dopo aver cercato di capire senza esserci riuscita, voglio condividere alcuni passaggi che non comprendo. Prima considerazione: ma l’Italia non è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro? E allora mi chiedo: era davvero necessaria questa legge? Non c’era già l’articolo 37 della Costituzione che dal 1948, grazie alle Madri Costituenti, sanciva il diritto alla parità salariale? Cito: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.»
Mi è stato spiegato che si trattava di tradurre in legge questo “principio”. Sarà vero, ma trovo conforto nel constatare che non solo la sola a dubitare. Tra le altre, segnalo le perplessità dell’economista e scrittrice Marta Fana che, riguardo a questa nuova legge, sostiene sia «un surrogato che dà soldi alle imprese per rispettare un principio costituzionale.»
Secondo dubbio: la legge fissa l’obbligo per le aziende con più di cinquanta dipendenti di presentare, ogni due anni, un rapporto sulla situazione del personale, Il Certificato della parità di genere. Bene, anche se in Italia la maggior parte delle imprese ha meno di cinquanta lavoratori/lavoratrici. Ma torniamo alle grandi aziende che, se si dimostreranno virtuose, saranno premiate con sgravi contributivi fino a cinquantamila euro.
Tradotto, e ditemi se sbaglio, dobbiamo premiare, pagando, le imprese che metteranno in atto la parità salariale. Capisco che la carota serva, ma non poteva bastare un riconoscimento ufficiale? Che so, una bella targa, una pacca sulle spalle elargita dal Presidente della Repubblica o semplicemente l’orgoglio di essere un’azienda che non discrimina e riconosce il valore del lavoro in modo paritario… Probabilmente parlo a vanvera e me ne scuso.
Dicevamo che quanto sopra riguarda solamente le grandi aziende. Per avere un quadro più chiaro della situazione mi rifaccio ai dati Istat del 2020: le imprese medie (50-249 addetti) rappresentano solo il 2,2% del totale di quelle attive in Italia, a queste si devono aggiungere le 3.686 aziende con oltre 250 addetti. Per il resto, su 1.019.786 imprese attive, le microimprese (3-9 addetti) rappresentano il 78,9% del totale e quelle di piccole dimensioni (10-49 addetti) sono il 18,6%.
Mi chiedo: in questi luoghi si potrà continuare a discriminare? E, se proprio devo pagare per far rispettare un diritto costituzionale, ora ribadito anche da questa nuova legge, preferirei venissero offerti incentivi a queste piccole realtà, che da sempre sono quelle più in sofferenza e quelle dove, molto spesso, i diritti negati alle lavoratrici non sono solo quelli della mancata parità salariale.
Qualche informazione sul divario nelle retribuzioni ce la danno gli ultimi dati Inps rielaborati dalla Uil. Il gender pay gap, in Italia, si quantifica secondo queste cifre medie: 2.300 euro in meno al mese per una donna dirigente rispetto a un suo collega maschio, in una differenza di 800 euro per le impiegate, di 700 per i “quadri”, in 600 euro per le operaie, in 160 euro per le apprendiste.
Voglio essere positiva e dare fiducia alla dichiarazione di Romina Mura, deputata del Pd e presidente della commissione Lavoro della Camera che asserisce: «Questa non è una legge risolutiva, ma è comunque un passo avanti molto importante, inoltre, è più avanzata della direttiva comunitaria in corso di discussione in Europa. Per ora ci sono 50 milioni di euro per il 2022, ma l’obiettivo è di rendere l’impegno strutturale, e su questo faremo una battaglia».
Dovendo concludere, sono felice che l’argomento della parità salariale sia finalmente oggetto dell’attenzione del legislatore e dei media, ma resto perplessa sull’efficacia della legge. Quindi, rimango vigile e aspetto di vedere come si evolverà la situazione. Per il momento tengo in sospeso il giudizio.
Cinzia Inguanta