Attraverso i dettagli degli oggetti e dei luoghi, fotografa i diversi aspetti del disagio percorrendo la strada degli autoritratti.
Chiara Romanini è originaria di Parma ma vive e lavora a Pistoia da molti anni. La sua sensibilità creativa l’ha portata a percorrere un cammino di autoanalisi e, ultimamente, anche di rinascita. Con lo pseudonimo di La Valse ha tenuto mostre a Roma, Matera, Genova e Pistoia; diverse sono anche le pubblicazioni che ospitano i suoi lavori. Conosciamo meglio questa donna oltre il consueto.
Come si è approcciata al mondo della fotografia?
«Ho iniziato a fotografare per caso e con timore reverenziale. I primi scatti erano ritratti della spazzatura che trovavo agli angoli delle strade camminando per Pistoia; in pratica fotografavo e ho continuato a fotografare il mio stato d’animo, sempre. Pensandoci ora, credo di essere uscita dal tunnel della depressione proprio attraverso la fotografia.»
C’è qualche artista in particolare che l’ha influenzata nel suo cammino creativo?
«Ho sempre amato l’arte, ma l’incontro con Camille Claudel è stata una passione così forte, travolgente e inaspettata che non mi ha più abbandonata. La forza che ho ricevuto dalla vita di questa donna e dalla tenacia con cui ha combattuto per la sua arte è stata determinante nella mia, di vita. Quando ho iniziato il mio percorso, usare lo pseudonimo de La Valse, il nome di una delle opere che maggiormente amo di questa artista, è stato talmente naturale che sembrava scritto nel mio destino.»
Il corpo è uno dei suoi soggetti preferiti, ce ne spieghi il motivo.
«Inizialmente fotografavo ciò che mi sembrava più affine, quindi la spazzatura. Successivamente ho iniziato a lavorare sul mio corpo. Corpo che non mi è mai piaciuto e con cui ho sempre avuto un rapporto critico e tormentato. Lavorare su di esso e sul mio vissuto mi ha permesso di iniziare una lunga e profonda autoanalisi. In questi autoritratti sono uscite tutte le mie nevrosi, i tormenti e le paure, molte immagini si legano al perturbante e agli incubi della mia infanzia. Gli specchi sono diventati il mio mezzo espressivo dominante, proteggono il mondo a cui voglio fare accedere poche persone ma che ho comunque bisogno di far uscire per non cadere a pezzi. Mi permettono di deformare lo sguardo dell’osservatore e sporcarlo attraverso polvere o macchie. Con incrinature naturali il corpo viene reciso o deformato, altra caratteristica prevalente, come sculture; sono corpi a volte decapitati o con arti amputati, come se l’angoscia che hanno vissuto li avesse privati in parte di loro stessi. Dopo i primi autoritratti tendenti allo scuro, piano piano mi si sono avvicinati lentamente gli abiti che rappresentano l’assenza e l’essenza e che, come fantasmi, si muovono all’interno della memoria. Come ninfe cercano un luogo dove rigenerarsi e rifugiarsi, grotte silenziose e stagni umidi, lontani da uomini e parole.»
Quindi il corpo è il protagonista dei suoi scatti, molto più di rado il volto.
«Negli autoritratti raramente appare il viso, spesso è nascosto o tagliato, è un bisogno personale e artistico perché mi sento di rappresentare molte donne attraverso questi autoritratti, sia nelle forme di dolore sia nella carnalità dell’eros. Eros che appartiene fortemente al mio mondo nella stessa misura in cui è avvolto dal dolore. Il primo sguardo alla carnalità è stato attraverso Ratto di Proserpina del Bernini, mai come allora ho sentito la manifestazione del desiderio irrinunciabile, come se solo negli inferi fosse possibile trattenere la potenza del desiderio eterno.»
A quanto ci racconta, ricava molta ispirazione dall’arte. Cosa la attrae maggiormente?
«Nel mio percorso ho tratto nutrimento dai libri che ho letto e che mi hanno condizionata moltissimo, dalle mostre e dai musei visitati oltre che dalla vita e dal mio lavoro. La mia grandissima fame è rivolta all’arte pittorica e plastica, continuo a osservare il movimento delle luci e dei colori, la bellezza dei corpi scolpiti con il mito a cui appartengono e che continuano ad accompagnarci attraverso la bellezza. Mi ritrovo travolta da queste percezioni che non mi abbandonano ma mi permettono, a volte, di superare giorni particolarmente difficili.»
A livello puramente pratico, come crea i suoi scatti?
«L’atto creativo è il momento più alto di abbandono e di isolamento. Non utilizzo molta post-produzione, cerco alternative artigianali, mezzi per aggirare la tecnologia digitale con modi espressivi molto semplici nel processo ma efficaci nel risultato finale. Lo scatto è solo una parte di queste immagini, molto lavoro è dedicato alla preparazione e alla ricerca di materiali e luoghi, il creare la scenografia di un “altrove” spesso divisa fra le mura domestiche o in giardini segreti.»
In che modo la sua arte si lega alla vita quotidiana?
«Ripensando a Virginia Woolf e al libro Una stanza tutta per sé, mi rendo conto che è proprio nel ricercare una stanza tutta per me che ho iniziato a sconvolgere il mio nido domestico. Tutto ha iniziato a prendere una forma diversa, quasi onirica. Il mio bagno (ho un bagno completamente mio che è diventato il mio studio privilegiato) ha iniziato a ospitare voliere e manichini, una pietra con crateri simili alla luna ha iniziato a osservarmi lentamente ogni giorno e un’altalena è scesa dalle travi. Sono tutte soluzioni di un sogno addomesticato alla realtà o forse la realtà si è addomesticata al sogno? Spesso confondo le cose, ma del resto mi hanno sempre detto che sono una persona strana, quindi non mi meraviglio, ho imparato a scorrere nell’essere come una ninfa attraverso l’acqua.»
Come ha incisto questo brutto periodo di pandemia sulla sua creatività?
«Dopo tutti questi mesi di grande chiusura, non riuscivo più a ritrovarmi nella luce e nel corpo, come se fossero anch’essi precipitati nel buio. Provavo a continuare a fotografare senza riuscirci. Mi è venuto in aiuto Ovidio con le sue Metamorfosi, in particolare il mito del Ratto di Proserpina. Partendo dall’Ade, non come luogo di morte ma come luogo di transizione e riflessione, ho iniziato la mia risalita.»
Serena Pisaneschi
Foto in alto: “La Valse”
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