Nel giorno della memoria, Lucilla Baroni ricorda la figura di questa eroina sopravvissuta all’olocausto grazie alla sua laurea in medicina.
Esiste in Toscana, a Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo, un piccolo museo con un enorme valore: la memoria del popolo. È il Piccolo Museo del Diario dove, aprendo un cassetto, puoi scoprire lo scorrere delle pagine ascoltandone la lettura, dove le lettere si susseguono su una Olivetti lettera 32, dove si possono ammirare disegni o piccoli appunti oppure il fantastico lenzuolo a due piazze dove Clelia, una contadina veneta, ha impresso i suoi ricordi. Testimonianze degli ultimi due secoli di storia italiana che rappresentano la voce di chi non è un letterato, di chi avrebbe voluto studiare ma è morto prima, di chi affida a un diario le proprie emozioni.
È qui che ho trovato Vivere e sopravvivere, il diario di Dora Klein, pubblicato nel 2001 da Mursia, finalista nel 1998 del concorso che ogni anno la città di Pieve Santo Stefano promuove. Dora ai tempi era già molto anziana e da Udine, sua città di adozione, partirono le nipoti. Era nata nel 1913 in Polonia da genitori ebrei non ortodossi che, con grandi sforzi economici, l’avevano mandata a studiare medicina prima in Cecoslovacchia e poi in Italia, a Bologna, dove conseguì la laurea. Tutto questo le avrebbe salvato la vita! Il suo diario è diviso in due parti, la prima narra del suo incontro e del suo rapporto con B., l’uomo con cui ebbe una figlia ma che non poté sposare a causa delle leggi razziali degli anni ’30. La seconda parte narra del suo peregrinare di ebrea dai centri di raccolta italiani fino ai lager nazisti tedeschi.
Già nel primo luogo di detenzione, il castello-prigione di Montechiarugolo, Dora Klein capì che non poteva attaccarsi ai ricordi o abbandonarsi alla disperazione ma che doveva reagire e agire per garantirsi la sopravvivenza. Dopo un breve periodo nel lager italo-tedesco di Fossoli, Dora partì, ironia della sorte, per un ritorno in patria: ma la destinazione fu Auschwitz-Birkenau. Varcò il cancello con la scritta “Il lavoro rende liberi” senza nemmeno immaginare cosa sarebbe successo di lì a poco… ma la sua fortuna fu proprio insita in quella scritta e alla domanda «Ci sono dottoresse tra di voi?» Dora alzò la mano e fece del diploma di laurea il suo scudo di difesa. Una donna laureata in medicina era una rarità a quei tempi e Dora Klein, pur non avendo esperienze se non sui banchi dell’ateneo, non si tirò indietro e imparò sul campo il mestiere. La sua missione era quella di guarire ma soprattutto proteggere tutte quelle donne, incoraggiarle e difenderle dai soprusi.
La visione spettrale di migliaia di donne e uomini diversi per età, provenienza e storia, ammassati e maltrattati in inumani baracconi l’abbiamo vista nelle foto e nei film, i capelli tagliati e le montagne di abiti e scarpe non più indossati da chi era finito nei forni crematori sono nella memoria collettiva, ma le parole stampate dei testimoni dell’olocausto, primo fra tutti Primo Levi, risvegliano in noi emozioni più profonde. Non sono i fatti ma le parole narrate da Dora che suscitano in noi la sensazione di orrore, di angoscia e di paura controbilanciata dalla voglia di vivere, di tornare a casa, di tornare alla normalità. L’estraniamento e lo sdoppiamento di personalità necessari per sopravvivere costituiscono la sua chiave di salvezza. Salvezza pagata a caro prezzo da tutti coloro che ne sono usciti: il senso di colpa nei confronti di migliaia di morti
È la determinata presa di coscienza politica che ci trasmette Dora Klein nelle sue pagine, con la speranza di un futuro mondo migliore, per tutti: senza distinzioni di sesso, senza distinzioni di razza e di religione. Sono le sue idee protofemministe e le sue idee libertarie che ci infondono il coraggio di lottare per le pari opportunità ma soprattutto ci infondono quella forza necessaria per riemergere dall’inferno, per risalire la china dopo essere state travolte negli abissi del dolore.
Lucilla Baroni
Foto in alto: Dora Klein