Dal secondo numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto la recensione dell’ultimo lavoro della giornalista e scrittrice argentina.
Lo scorso maggio, nella collana Diagonal della casa editrice Gran Via, è uscito Aparecida, romanzo autobiografico di Marta Dillon. L’autrice ci racconta la sua storia e la storia del ritrovamento di sua madre, desaparecida quando lei era bambina. Una telefonata trentacinque anni dopo quel rapimento la informa di alcune ossa rinvenute in una fossa comune, tra queste ci sono quelle Marta Taboada. Questo innesco dà il via a un continuo altalenare della narrazione tra passato e presente. I ricordi della scrittrice ci avvolgono, così come il fibrillare delle emozioni. Per anni Marta ha cercato la madre battendo ogni strada, parlando con i sopravvissuti alla prigionia, con altri figli di desaparecidos, testarda e imperiosa. Ma perché? Per avere delle risposte, per poter finalmente piangere il lutto. Scriverà: «In quei giorni smontavo il dolore pezzo dopo pezzo, mettevo in attesa un lutto che cominciava ma che non era mai cessato.» È così che vive il ritrovamento di sua madre, affrontando un dolore che c’è sempre stato ma si è manifestato in modo differente. Con la ricerca spasmodica, con le domande pressanti, con la certezza di una fine senza poter vivere quella stessa certezza.
Ma il ritrovamento dei resti, se da una parte è una liberazione per Marta, dall’altra le impedisce di progredire in quell’addio sospeso da tanto tempo. «Le ossa di mia madre si erano trasformate in un’ancora, non mi facevano muovere» scriverà, ed è così che si sente: immobile. Non procede nel saluto definitivo, non trova la forza di vedere ciò che è rimasto, i suoi fratelli lo fanno, sua figlia anche, ma lei rimanda. Negli anni precedenti ha cercato qualsiasi traccia nelle testimonianze degli altri, nei luoghi in cui è stata tenuta prigioniera. La cerca anche nei vestiti, ormai ridotti a stracci, che sono stati trovati in quella fossa che tante morti ha accolto. Trova un indumento che potrebbe essere stato di sua madre e ci si aggrappa, si aggrappa al ricordo di cosa indossasse il giorno del rapimento, e un po’ ci si rifugia, anche. Ha bisogno di quel lembo, è come se rendesse tutto più reale, più delle ossa stesse. Dopo tanti anni di silenzio e d’incertezze arriva quella pace che stava cercando, ma il dolore non se ne va, cambia solo forma rendendosi più concreto: «perché anche se siamo invecchiati il dolore sembra appena nato.»
Marta Dillon ci rende partecipi della sua vita e lo fa portandoci dentro di sé, nel presente e nel passato. Tenere sono le immagini che la vedono figlia di una madre coraggiosa, aggrappata agli stralci d’infanzia che ancora ricorda per potersi ricordare di sua madre. Forti sono le emozioni che vive quando tutto sembra finito e invece sta solo per iniziare. Dillon ci racconta tutto con un linguaggio molto poetico, con piccole frasi perfette messe qua e là che non possono non scatenare un sentimento d’empatia. La sua narrazione è avvolgente, trascinante, non lascia indifferenti. Aparecida è un romanzo che ci svela una realtà che ne contiene altre, che testimonia la storia tralasciando la politica ed esaltando la dimensione umana che troppo spesso, dalla storia stessa, viene messa in secondo piano.
Marta Dillon (Buenos Aires 1966) è giornalista e sceneggiatrice. Figlia dell’avvocatessa Marta Taboada, ha vissuto l’esilio dall’età di otto anni dopo l’arresto della madre ritenuta complice e sostenitrice di attività sovversive al tempo del regime peronista. L’avvocatessa Taboada fu segregata nel carcere clandestino di El Vesuvio. Fu successivamente giustiziata in strada nel 1997, insieme ad altri detenuti come testimonia l’Open letter, l’ultimo scritto del giornalista dissidente Rodolfo Walsh redatto poche ore prima che fosse ucciso. I loro corpi tutti sepolti in una fossa comune a Ciudadela. Dillon è giornalista di lungo corso (ha collaborato con numerosi giornali e riviste, fra cui Nuevo Sur, El Porteño, Noticias, Página/30, Rolling Stone, El Planeta Urbano, Latido), dal 2002 dirige il supplemento femminista Las 12, di Página/12, e dal 2008 al 2012 ha diretto LGTBQ Soy, altro supplemento dello stesso quotidiano dedicato alla diversità sessuale e di genere. È membro di HIJOS (organismo che riunisce figli di desaparecidos o di ex prigionieri politici o di esiliati) fin dalla sua fondazione ed è tra le fondatrici del movimento Ni Una Menos, contro la violenza alle donne e il femminicidio. Nel 2010 ha sposato la cineasta Albertina Carri, anche lei figlia di desaparecidos, con la quale ha fondato la casa di produzione cinematografica Torta. Nel 1994, ha scoperto di essere malata di AIDS. Su questa sua condizione ha tenuto una colonna sul supplemento No di Página/12 che, nel 2004, si è trasformata nel libro Vivir con el virus. Relatos de la vida cotidiana.
Serena Pisaneschi
Foto in alto: Marta Dillon
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