«Tutti ce la raccontiamo se vogliamo vivere, ragazza mia», mi diceva quando ero studentessa delle medie superiori, «ma c’è chi esagera […]».
Ciò che ha salvato il rapporto fra mio padre e me in età scolare sono stati gli episodi di Starsky & Hutch e il gioco delle bocce.
Tornava tardi alla sera, lui, ed era disfatto. Disfatto dal lavoro che non girava, disfatto dalle sigarette Milde Sorte, dai troppi caffè e dalla Fiat 127 bianca che cominciava di nuovo ad avere dei problemi e forse c’era da chiedere un nuovo prestito al suocero a interessi zero, di quelli da rendere piano piano.
Ma.
Ma l’appuntamento con Starsky & Hutch era il pensiero felice. Io e lui strizzati sul divano a far finta di essere loro, a far finta di avere una macchina come quella. E al termine della consueta puntata c’erano le bocce, la partitina a bocce colorate, quelle pesanti, piene di acqua, mi diceva.
Partitina serale come la favola della buonanotte, uguale. Anzi meglio, anche perché durante quell’ora e mezza eravamo solo lui e io, senza nessuno e senza ombrelli in mezzo.
Sì, perché aveva un ombrello mio padre, un ombrello da cui mai si separava. Lo usava per ripararsi da tutto, anche da me credo. Forse il suo ombrello, di cui era geloso, lo faceva sentire più sicuro, nonostante il lavoro che non girava, nonostante le troppe sigarette, nonostante la mamma che non c’era.
Ricordo che mi portava la domenica pomeriggio alla spiaggia. In fondo era diventata una sana abitudine per noi tre: io bambina di terza elementare col vestitino leggero cucito dalla nonna, lui vestito sempre troppo pesante, e il suo ombrello, nero. Io lo odiavo il suo ombrello nero: ostentato, onnipresente, sia che piovesse sia che ci fosse il sole. Lui era sempre fra noi; più del lavoro ingrato, più delle sigarette, più degli infiniti sabato pomeriggio trascorsi a giocare a Barbie nel salottino con la finta compagnia di lui addormentato sul divano color senape che puzzava di fumo, perso in un infinito sonno postprandiale. Me ne vergognavo pure, di quel maledetto ombrello.
Ricordo la prima volta che mi portò alla spiaggia del paese a conoscere il mare: era un tardo pomeriggio di domenica ed eravamo come al solito io, che non avevo mai visto il mare, lui, e l’ombrello. C’erano i pini con l’oro dietro del tramonto, piegati in un inchino corale verso l’entroterra, ubriaco di girasoli e di colline morbide e di grano verde, da quel vento di mare culla del sole. C’erano i cavalli e le staccionate bianche e i ginepri tra i cipressi secolari. Il sole era arancione e il mare era mosso. L’aria era appiccicosa di sale grosso e arricciava i miei capelli di solito sempre costretti in un liscio e rigido caschetto, come piaceva alla nonna. Il vestitino leggero mi aderiva alla pancia e le ventate più forti lo alzavano fino a coprirmi la faccia. Fu al termine di una di queste, la più forte, che vidi arrivare lei, l’onda, la mia prima onda, montagna verde e bianca di schiuma. Mi correva incontro, mi aggrediva, rideva e mi spaventava. Mi scosse, quell’onda, e agitò mio padre che puntualmente indietreggiò proteggendosi con l’ombrello.
Praticamente vidi il mare la prima volta a otto anni, e mi scosse qualcosa nella testa, nel cuore e nelle mani. Ne avevo sempre e solo sentito parlare, del mare, fino a quella domenica pomeriggio, e lo avevo visto in tv. Credo che mio padre avesse deciso di portarmi lì perché ora basta, gli diceva la nonna, la bambina cresce, la bambina deve vivere e conoscere il paese e poi la città e poi il mondo. E lui decise di cominciare dal mare, dalla cosa che più lo agitava.
Sì, perché mio padre alla fine era uno che non se la raccontava, eh. Affrontava le situazioni di petto, lui. Va beh, con l’ombrello nero aperto davanti, però le affrontava. E questa cosa del mare andava fatta, punto e basta. Al paese lo consideravano pazzo: non era simpatico quasi a nessuno, solo a quelli “un po’ rimasti”, come li chiamava lui. Che poi erano quelli che non se la raccontavano nemmeno loro, praticamente.
«Tutti ce la raccontiamo se vogliamo vivere, ragazza mia», mi diceva quando ero studentessa delle medie superiori, «ma c’è chi esagera, come dire. C’è chi se la racconta troppo, su tutto. Su che moglie meravigliosa ha, su che figli superdotati e sensibili ha, su quanto conta il lavoro che fa, che se non ci fosse ecco sarebbe un casino per la società tutta, insomma. E mica tutti son medici del pronto soccorso o di quelli senza frontiere, e nemmeno sostituti procuratore antimafia, ragazza mia. Eppure, se la raccontano che è un piacere sentirli. A volte. A volte invece no, dipende dalla giornata, credo. O dal livello di malumore che ti attanaglia al sorgere del sole, che a sua volta varia in base a quanto tu sei in grado di raccontartela in quel determinato periodo. Lo fa anche a te, giovane e studiosa ragazza mia? E sia chiaro eh, in generale» aggiungeva, «sia io sia il mio bambino interiore conveniamo che raccontarsela è importante. È importante per crederci. È importante per vivere e fare crescere nella fiducia il bambino di dentro. Non scordarti mai del tuo, come scriveva il Pascoli, mi raccomando. Che poi secondo me è maschio il tuo, si vede.»
Leggeva molto mio padre, tante poesie, e ascoltava musica jazz. Solo jazz con qualche spruzzo di blues, tanto che in camera sua, al posto della gigantografia che ritraeva lui e la mamma vestiti da sposi in un giorno di ottobre, mise la foto di Bourbon Street, New Orleans. Era lì che era nata, mi raccontava, tutta la musica che lo aiutava a vivere e a leggere. D’altronde si sa, gli uomini il dolore delle assenze lo mettono nella tasca di dietro dei pantaloni; non in quella del portafoglio, dove frugano spesso, ma nell’altra, in modo da doverci mettere testa e mani il meno possibile. Quindi, solo fotografie piccole di mamma giovane e ridente e bella, da nascondere appunto dietro la tessera dell’Automobile Club Italiano.
E comunque su questa cosa del raccontarsela secondo me aveva ragione. Ricordo spesso che quando io, adolescente, smisi di raccontarmela, dovetti dopo qualche mese andare a farmi insegnare da una brava come ricominciare: la mamma non c’era e ci voleva una che se ne intendesse e facesse meglio di quanto avrebbe fatto lei, se possibile. Ecco, a raccontarmela come mi ha insegnato lei, che poi è una che ha studiato insomma, in quel modo più fluido e più lineare, meno impegnativo, meno da denti stretti e mandibola serrata. Mi ci mandò mia nonna, la nonna paterna. Lei era avanti: nata nel 1920 ma serva di nessuno; rimasta vedova, sola con un figlio maschio, che se ne andava sempre a giro dotato di ombrello, e una nipote bambina. Fu lei che mi pagò tutte le sedute dalla psicologa, la quale mi insegnò abilmente a modellare la mia agitazione.
Però nel tramonto di quella epocale domenica in cui annusai il mare da vicino sulla spiaggia ventosa di Fiumara imbevuta di luce arancione, la mia agitazione ancora acerba si calmò, o meglio, si trasformò. Da lì capii che la mamma avremo potuto dividercela, io e il mare. Anche se in molti al paese dicevano che lei gli si era annegata dentro. E molti ancora dicevano che lo aveva fatto assieme al suo amante.
Io ancora non lo so se sono figlia di una puttana, come la chiamano in tanti, di una suicida o di una puttana suicida. So solo che sono brava, molto brava, a disegnare, come lo era lei.
È vero che i genitori ti segnano la vita. A me l’hanno disegnata: adesso dipingo tavole da surf e vele e paracaduti e ombrelli. Mi cercano da tutto il mondo per farlo. Sulla prima tavola che ho decorato ho dipinto la macchina di Starsky & Hutch.
Sono venuta in America a dipingere e a vendere, in un posto dove a nessuno importa di chi sono figlia e ho portato con me solo poche cose dalla Toscana che amo: l’olio di oliva, l’ombrello di mio padre, il numero del cellulare privato della psicologa e un mio dipinto della spiaggia di Fiumara in tutta la sua bellezza: lei che mi ha tolto un pezzo di vita e poi me lo ha reso.
Elena Marrassini
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Raccontarsela. Attualità Elena. Una famiglia meravigliosa, una Nonna Rosa dei Venti di quelle che non sbagliano mai strade e orientaMenti.
Un Padre adorabile che ti insegna giorno per giorno l’importanza di non essere perfetti. La psicologa da ascoltare.E poi il Mare dove è dolce naufragare che sia per un amore o per Vivere e da lui farci nutrire.