«Qui nella penombra ora invento parole, ma rimpiango una luce, la luce del sole». Dal secondo numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto.
L’andare
Ripida mi si accosta la strada,
mi sostiene, mi guida.
La foglia caduta si rigenera a terra,
la pietra si compiace del suo sguardo
lucido e bianco.
D’acqua si riempie il suono,
e intorno si elevano chiome,
placide e molli,
verdi, marroni, arancioni.
Serpeggiano nel fitto del bosco
rettili e altri ignoti animali,
mentre ronzano insetti
che allietano il passo.
Danziamo il bosco,
il suo grembo umido,
il buio intenso protetto dal resto.
Dentro portiamo un cuore urbano,
sulle spalle i fardelli dell’ufficio,
delle tastiere, delle riunioni,
del correre in auto,
delle soste agli incroci.
Qui abbiamo i cammini
tracciati dalle guide
e il silenzio come cuscino
da ogni lato.
Una pausa.
Vivere sincero.
A chi rispondiamo,
esattamente,
quando diciamo
“Viviamo”?
Il mosto del tempo
Mio nonno è morto quando non aveva più pelle per lavorare.
Liscia e levigata la pelle bruna,
dura come legno,
compatta come natura ha voluto.
Solchi di terra,
tra filari di frutti e pomodori,
tra campi e casa,
tra erba ed erba.
Dove sarà ancora il cappello intrecciato di paglia,
sempre calcato a dovere,
dove la cinghia per tenere su i calzoni?
Quali animali si è portato dietro nella terra?
Quali respiri umidi lo hanno accompagnato al di là di tutto?
Il mulo?
La gallina?
Il coniglio?
Il fringuello?
Dove il respiro della madre che ha perso,
con tre minuscoli fratelli neonati,
quando aveva bisogno di lei per crescere uomo?
E il soffio della moglie che ha lasciato in un letto d’ospedale,
mangiata dentro dal male che non dà scampo?
Una folata del vento della sera
riporta in faccia la fatica del lavoro nei campi,
mentre offre in cambio collane inesauribili di albe e tramonti,
allargati beati nel panorama muto.
Non l’ho mai sentito parlare,
aveva sempre le mani piene:
di zucchine,
di rape,
di cardi.
Non sono stata al suo funerale,
avevo la febbre,
stavo male.
Non sentivo niente,
c’era un’assenza che durava da tanto,
non sapeva di molto,
la coltivavo nel petto, la tenevo di conto.
Solo adesso lo sento da questo remoto futuro.
Mi arriva di lui un sibilo acuto:
il mondo rurale,
lo starci senza pensare,
il ciclo delle stagioni da assecondare.
Forse adesso che mia madre,
sua figlia,
se ne sta per andare,
forse ora
torno alla sua porta a bussare.
Lo immagino paziente a ramare,
a coprire le serre,
a scavare.
Lo immagino muto,
anche adesso,
come quando era vivo,
ma un sussurro mi solletica il cuore.
Ritorno allora alla casa
che fu rifugio e gioco ed enigma,
e mi accolse bambina per parlarmi di loro,
ascendenti sanguigni, vitigni avviluppati,
da cui spremo il mosto del mio tempo.
Tutto tace
Tutto tace.
La camminata serale diventa spettrale.
Finalmente si sono fermati,
e proprio ora, io esco.
Diventano rosse la strada, l’aria, la gente.
Rosso anche il fischiare del treno,
rossa l’eco televisiva
da ogni tana in lontananza propagata.
Rosso l’occhio assente,
rosso il pensiero nostalgico.
Stringo il vuoto nello sguardo,
un avvolgibile decreta ghigliottinando
la fine della giornata.
Il buio è consolato dai lampioni squillanti di giallo
e voci umane insistono dalle finestre
a farsi sentire.
La sirena dell’ambulanza completa lo scenario urbano.
Mentre l’asfalto parla e parla,
con le sue ferite di tracce
aperte e poi ricucite,
di lavori fatti e da fare,
per migliorare ancora un po’
le comodità domestiche.
Ora finalmente i nostri rifugi
sono autarchie inattaccabili.
Dentro arrivano il calore, la luce, l’acqua corrente,
ma anche la connessione veloce, la linea telefonica,
il cinema, il teatro, l’informazione.
In casa ci sono famiglia e lavoro e scuola.
A volte, anche l’amore.
Apriamo l’uscio ed entra la musica.
Perché mai dovremmo uscire fuori?
Di quale primavera dovremmo avere memoria?
Siamo a digiuno di stagioni,
estranei alle trasformazioni.
Lingua compagna
Quando traduco in parole che non esistono
il senso delle cose,
e tu mi ringrazi perché il groviglio
si fa morbido e piano,
capisco allora
che la lingua non ci è padrona,
ma compagna.
Alla madre
Lei fu la prima che mi mise in petto,
conficcata come una freccia,
la scintilla dell’umano,
del giusto,
della pietà.
Con questa ferita vivo,
e sempre si allarga
quando un mio simile
allunga la mano,
quando presto orecchio
al dolore,
alla fame,
al pianto.
Cristina Trinci lavora in una biblioteca comunale dove si occupa di comunicazione, organizzazione eventi, promozione alla lettura e progetti in ambito culturale. Possiede una laurea in Scienze della Comunicazione, un master in Comunicazione Pubblica e un attestato professionale come Operatore culturale e dello spettacolo. Coltiva i suoi tanti interessi frequentando corsi di recitazione e dizione, fotografia e sviluppo, e praticando volontariato nel Commercio equo e solidale. Ha pubblicato un romanzo, Quello che resta (Del Bucchia Editore, 2013), vincitore del concorso Scriviamo insieme organizzato dal Teatro Aurelio di Roma. Alcuni suoi racconti sono pubblicati in antologie. Ha collaborato alla realizzazione del video documentario sulla Villa Medicea dell’Ambrogiana (Montelupo Fiorentino), per la regia di Sirio Zabberoni, curando testi, musiche e montaggio. Ha condotto la trasmissione televisiva La strada per un’emittente locale toscana negli anni 2010 e 2011. Ama leggere in pubblico.
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