Dal secondo numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto un racconto inedito della promettente autrice legnaghese.
«Guardati. Guarda come sei bella.»
Me lo dice sempre, quando stiamo davanti allo specchio lungo, appeso alla parete del salotto. Le nostre due figure nude, una di fianco all’altra, con lui che mi prende per la vita e mi mette davanti a sé, perché possa vedermi meglio. Guardo il mio viso, le braccia lungo il corpo, la curva dei fianchi. Poi guardo la sua espressione, un misto di desiderio e adorazione.
«Ricordatelo sempre. Qualunque cosa succeda.»
Come per una sorta di imbarazzo, abbasso lo sguardo, mi sciolgo dalla presa e inizio a raccogliere i pezzi di me che ho lasciato in giro. Anche lui prende un paio di jeans che aveva lasciato sul divano e se li infila.
«Scusami, ma ho una call alle nove. Devo collegarmi. Se vuoi, c’è dell’altro caffè in cucina.»
«No, grazie. Sono a posto. Adesso vado.»
Mi rivesto e vado verso la porta d’ingresso. Abbasso la maniglia, tiro la porta verso di me ma, prima di uscire, mi giro di nuovo verso di lui: «Passo al Conad. Ti serve qualcosa?»
«Grazie, ma no, sai.»
Arrivo in strada, con quella sensazione di “pieno e vuoto” che ho ogni volta. Pieno, perché con lui, per la prima volta, ho imparato a guardarmi, a percepirmi come corpo, a prendere contatto con me stessa e con la mia femminilità. Da tanti anni, forse da sempre, mi sentivo invisibile. Ma anche vuoto, perché so di non dovermi né potermi appoggiare a lui. Perché lui c’è, ma allo stesso tempo non c’è. E non si sa nemmeno per quanto, oltretutto. Un dono del destino, ma sul quale non posso fare affidamento. Con il cappotto rosso abbottonato fino al mento, cammino con passo veloce e deciso verso il supermercato. Sento i muscoli forti delle gambe muoversi nell’aria fresca di questa mattina di ottobre, sento il rumore del mio respiro e il sangue in circolo che mi scalda. Esisto.
Le porte scorrevoli del Conad si aprono al mio passaggio. C’è poca gente a quest’ora. Mi fermo nel reparto di frutta e verdura. Butto nel cestello un pacco di carote in offerta e una rete di limoni, quasi senza guardare. Passando davanti alla vetrina frigorifera, noto delle pannocchie di mais, pulite e incellophanate, pronte per essere messe su una griglia ad abbrustolire. E subito torno là. Al pranzo della domenica a casa della nonna.
L’odore delle vecchie case di campagna, dei muri impregnati da anni di salami appesi a essiccare e di legna bruciata nella stufa. Il lungo tavolo di legno, di quelli di una volta, da famiglie numerose. La pirofila con il risotto al tastasal e le bottiglie di Clinto. Le chiacchiere, sempre le stesse. La televisione accesa su Domenica In. Appena dopo il dolce, quasi sempre una torta di mele fatta in casa, scappavo in qualche stanza vuota al piano di sopra o, quando il tempo lo permetteva, a sedermi sulla riva del fosso che passava lì vicino. Io e un quadernetto, che a volte era un’agenda vecchia recuperata da qualche adulto. Quel giorno, avevo dodici anni credo, sull’aia davanti alla casa era stato sparso il mais, a seccare. Sono uscita con il quaderno in mano, mi sono tolta i sandali e ho iniziato a camminare sui chicchi gialli. Mi piaceva camminare a piedi nudi sul mais. Mi sono seduta a gambe incrociate in mezzo a quella distesa dorata, con il mio rifugio fatto di fogli bianchi da riempire. Per creare mondi, per creare storie. Erano la mia compagnia, la mia evasione. Ero affezionata alla realtà nella quale ero cresciuta, a quella società contadina della Pianura Padana, rustica e semplice, fatta di sacrificio, di giornate scandite dalle ore battute dal campanile della chiesa e dal lavoro nei campi. Ma, allo stesso tempo, continuavo a chiedermi: io appartengo a tutto questo? O forse il mio futuro è altrove? Mi sentivo come una farfalla nel bozzolo: stava crescendo e, prima o poi, quel bozzolo lo avrebbe lasciato, per iniziare a vivere una vita nuova, diversa. Per iniziare a volare.
Il telefono che vibra mi riporta al presente. Un messaggio:
E scrivi, oggi 🙂
Sì, lo so. Ha ragione. Me lo ripete continuamente. E io che non ho ancora iniziato quel corso on line che mi ha regalato, quello di scrittura creativa. Lui è stata la prima persona a cui ho avuto il coraggio di far leggere ciò che scrivevo. Mi ha sempre sostenuta in quella che è la mia passione. Mi dà consigli, mi sprona. La mia autostima, da sempre inesistente, è salita di qualche gradino. In ogni ambito.
Finisco la spesa e, con le borse in mano, vado a piedi verso casa. Julia Cameron, un’artista statunitense, autrice di vari libri, dice che la procrastinazione non è pigrizia, ma paura. Paura di non essere all’altezza, paura di fallire. Sono d’accordo e so anche che non posso e non voglio lasciarla vincere. Ho lasciato il paese, mi sono licenziata, ho rischiato e fatto già molta strada: non mollo proprio adesso. Accelero il passo lungo il viale. Ho degli annunci di lavoro a cui rispondere e delle idee da scrivere.
Il resto della giornata trascorre rapido e ovattato. Così come tutte le giornate a seguire. Però, nelle settimane successive, qualcosa inizia a cambiare. I suoi messaggi diventano sempre più rari. Smette di chiamarmi. Ci vediamo meno di prima, ogni tanto mi tira addirittura pacco (cosa che non aveva mai fatto) e il lato sinistro del letto rimane vuoto sempre più spesso. Fino a quel pomeriggio, nel quale, dopo l’ennesima richiesta di vederci da parte mia, che resta senza risposta, mi telefona.
«Ciao.»
«Ciao.»
«Scusami se te lo dico per telefono, ma non ho molto tempo in questo periodo. È che ci ho pensato… e credo sia meglio se non ci vediamo più.»
Il mio cervello si rifiuta di metabolizzare queste parole e rimane in stand by per qualche secondo. Dall’altra parte c’è silenzio. Poi vorrei gridare, supplicarlo di ripensarci, e ricordargli tutto il bello che siamo e che c’è nel nostro rapporto. Subito dopo invece penso che vorrei lasciarlo andare, perché sono stanca di rincorrerlo e di lottare per farlo restare nella mia vita. E non solo nelle ultime settimane. Alla fine, mi escono dalla bocca solo parole sconnesse e inutili: «Ma perché… cioè… cos’è successo… non capisco…»
«Non è colpa di nessuno. È solo che le cose cambiano.»
Riattacco. Gli butto giù il telefono in faccia. Non riesco più a respirare. Sento freddo nella pancia, nella testa, ovunque. Con un urlo disperato, lancio il telefono contro la parete. Miracolosamente non va in mille pezzi. Sono troppo sconvolta, persino per piangere. Anche se me lo dovevo aspettare che prima o poi sarebbe successo, non ci volevo credere. Continuavo a sperare che lui ci sarebbe stato per sempre.
Il telefono suona di nuovo. Per un attimo spero che sia lui, che mi dice che non è vero, che si è sbagliato, che in realtà non vuole chiudere, che non vuole perdermi e che troveremo un modo e andremo avanti. Ma appena lo giro, sotto la ragnatela di crepe che è diventata lo schermo, non c’è il suo numero. È un numero sconosciuto, di un telefono fisso. In questo momento odio il mondo e chiunque lo abita, anche la persona che mi sta chiamando. Non vorrei rispondere, ma poi un istinto di cui nemmeno io mi rendo conto, mi fa premere il tasto verde. È un’importante rivista di Milano a cui avevo inviato una candidatura tempo prima. Il mio profilo è piaciuto e anche il progetto che avevo mandato è stato apprezzato. Vogliono fissare un colloquio: stanno cercando una copy che si occupi del loro blog. A telefonata conclusa, mi sdraio sul pavimento, incapace di muovermi o di pensare. Giro lo sguardo verso la finestra e resto lì, a guardare l’arrivo del buio e la comparsa delle prime stelle.
La notte è fatta per sognare. Questa volta però sogneremo separati. Ti vedo, le tue mani scivolano sulla tastiera del pianoforte. Accarezzi i tasti bianchi e neri come fossero la pelle di una donna, in una realtà della quale io non faccio più parte. Le mie dita invece stanno danzando sulla tastiera del computer, a comporre una musica fatta di parole. Fino al momento in cui, esausta, crollo sul letto e mi butto a faccia in giù, a bagnare il cuscino.
È di nuovo mattina. Una mattina di qualche settimana dopo. Scalcio il piumone con le gambe, mi alzo dal letto e tiro su la tapparella. Il sole c’è anche oggi, ma lui no. Però è rimasto qualcosa di molto più importante: la Donna e l’Artista che ha tirato fuori da me. O meglio, che mi ha aiutato a tirare fuori. E di cui, nonostante tutto, gli sarò sempre grata. Dentro c’è ancora quel vuoto, il lutto per quella sensazione di Casa che è venuta a mancare. Ma il bozzolo è ormai rotto e non si torna indietro. Posso solo iniziare a sbattere le ali e volare.
La Alicia automatica sta già borbottando, il caffè è quasi pronto. Vado in cucina a piedi nudi, prendo la solita tazza rossa dalla mensola e me lo verso. Non c’è più tempo per il rimpianto, nemmeno per il dolore. Oggi ho una nuova pagina da scrivere, per il web e per la mia vita.
Lara Berardo è nata a Legnago nel 1981. Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, per un anno ha collezionato meraviglia viaggiando il mondo zaino in spalla, ma è felice anche con un bicchiere di vino in compagnia e una passeggiata nella sua amata Verona. Le sue esperienze le hanno aperto finestre sulla vita e le storie delle persone. Oggi collabora con la società Risorse snc come copywriter. Oltre a due racconti per il progetto Questo l’ho scritto io del Teatro Nuovo di Verona, ha scritto per il Corriere.it, per Urbanologie.com e per la rivista Senza Filtro. Ha partecipato con il suo racconto L’appuntamento alla raccolta antologica Veronesi per sempre (2021, Edizioni della Sera).
Foto in alto: Lara Berardo
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