Il racconto della vita nella clinica psichiatrica, tra elettroshock e autentiche torture, libera lo sguardo della poetessa su questo inferno, come un’onda che alterna la lucidità all’incanto.
Questo venerdì il mio consiglio è L’altra verità. Diario di una diversa di Alda Merini (Rizzoli, 1997). Si tratta della prima opera in prosa, a carattere autobiografico, della famosa poetessa che racconta i dieci anni trascorsi internata nel manicomio Paolo Pini di Milano. Il ricovero risale al 1964, anno in cui ebbe un esaurimento nervoso apparentemente dovuto alla morte della madre, ma che in realtà aveva radici nel suo ruolo di moglie e di madre. Purtroppo, in quel momento storico, la vita della donna era assoggettata a quella del marito, che poteva infatti disporre il ricovero della moglie a sua insaputa. Gli eventi narrati sono antecedenti all’approvazione della legge Basaglia, con tutto ciò che concerne il trattamento (disumano) dei pazienti negli ospedali psichiatrici. Alda Merini non ne conosceva nemmeno l’esistenza fino al momento in cui si è dovuta confrontare bruscamente con questa realtà. A distanza di alcuni giorni dal primo ricovero, il marito decide di andare a prenderla per riportarla a casa, ma sarà proprio lei a rifiutare perché inizia a vedere in lui un nemico.
Lo stile è caratterizzato da una scrittura asciutta, essenziale, le parole scelte in modo puntuale e mai ridondanti. Il risultato finale appare comunque quasi lirico, probabilmente per l’alternarsi di passaggi che richiamano la forma diaristica con versi di poesia e lettere. Dalle pagine emerge forte l’ambiente del manicomio, si percepiscono gli odori degli escrementi, le urla inumane delle donne ricoverate, l’alienazione delle giornate che si ripetono tutte uguali a se stesse e le notti che appaiono infinite. In quel luogo aberrante, dove l’oscurità imperversa senza lasciare la possibilità di una via di uscita, Alda Merini riesce a trovare piccoli spiragli. Il primo è rappresentato dall’amore platonico che prova per Pierre, «ometto schivo e semplice» ricoverato nella sezione maschile del manicomio. Il secondo è il Dottor G (uno degli psichiatri dell’ospedale, Enzo Gabrici), l’unica persona a mostrarle umanità e che le risparmiò i trattamenti di elettroshock a cui si sarebbe dovuta sottoporre. Amara è la conclusione a cui arriva la poetessa sulla condizione del “pazzo” che rimane sospeso tra due realtà. Quella dei “sani” del mondo esterno al manicomio, dove si sente costretto dai pregiudizi da parte di coloro che “ti giudicano, ti criticano, e non ti amano”, e quella dei “malati”.
In accoppiata con il libro di Alda Merini, vi propongo una canzone. Si tratta di La Salamandra dei Tre Allegri Ragazzi Morti, contenuta all’interno dell’album La seconda rivoluzione sessuale (La Tempesta dischi, 2007). Ogni volta che l’ho ascoltata dal vivo ai loro concerti, Davide Toffolo la fa precedere da una breve premessa nella quale racconta di aver rubato, per la canzone, le parole alla nota poetessa. Ho fatto qualche ricerca e non ho trovato una corrispondenza diretta tra il testo e le poesie, penso quindi si tratti, principalmente, di un omaggio a una donna fuori dal comune come Alda Merini è riuscita a essere con la sua vita e con le sue parole. Solamente in Sono nata il ventuno a primavera (contenuta nell’antologia Vuoto d’amore, Einaudi, 1991) ho trovato due versi che hanno forte assonanza con ciò che è cantato nella canzone: “e piange sempre la sera. Forse è la sua preghiera.”
Sara Simoni
Foto in alto: Alda Merini
© RIPRODUZIONE RISERVATA