Le madri delle fiabe, gelose, avide, impazienti e crudeli, mettono in crisi il modello idealizzato del rapporto genitorə-figliə, ma niente paura, è tutto calcolato. Approfondimento a cura di Federica Sazzini dal terzo numero della nostra rivista.
«Mamma, ma perché nelle fiabe ci sono sempre le streghe?» Avevo appena richiuso il libro di fiabe che tenevo fra le mani ed ero sul punto di risponderle, ma mi sono bloccata. Sono rimasta una frazione di secondo con la bocca aperta e poi, senza proferire parole, l’ho richiusa. Luisa, quasi sei anni, ha continuato a fissarmi con i suoi occhi chiari curiosi, riponendo in me la fiducia totale che a quell’età si riserva ai genitori. Fiducia mal riposta in quel caso, perché io la risposta non l’avevo. O meglio, una risposta di acchito gliela avrei data: una lunga e circostanziata spiegazione su come la visione della donna sia da sempre afflitta da una misoginia antica e odiosa che ci riserva il ruolo di strega e (quasi) mai quello di eroina.
Perché dalla notte dei tempi siamo la matrigna cattiva che tenta di uccidere la figliastra, la strega che adesca bambini innocenti con la sua casa di pan di zenzero per poi cuocerli nel forno, madre Goethel che chiude la figlia rubata in una torre altissima senza scale né porta, le sorellastre odiose che disprezzano e molestano la povera e buona Cenerentola. E potrei continuare così, perché la figura della madre crudele, della matrigna vendicativa, della strega feroce è presente nella maggioranza delle storie della tradizione orale di quasi tutte le culture del mondo.
È innegabilmente il frutto di una cultura patriarcale dominante, che teme le donne potenti e le etichetta come streghe. «Tremate, tremate, le streghe son tornate» era non a caso uno degli slogan più gridato nelle piazze delle rivendicazioni femministe degli anni ‘70. Ma allora, se la risposta che avevo era così chiara, perché mi sono bloccata? Perché qualcosa dentro di me mi ha detto fermati, aspetta, rifletti. A chi stai dando questa risposta? A una donna che deve aprire gli occhi sulla propria emancipazione o a una bambina che pur accorgendosi delle differenze fra maschi e femmine non le vive come una trappola sociale?
Luisa è la mia prima figlia e quando ha iniziato ad amare le storie mi sono posta il problema di quali raccontarle, con quali parole e con quale morale. Non leggevo fiabe dai tempi della mia infanzia e quando, dopo vent’anni, me le sono ritrovate tra le dita non sapevo più come maneggiarle. Cosa erano tutti quegli assurdi racconti, illogici, strampalati e crudeli? Mentre le leggevo mi dicevo che no, non andavano affatto bene. Avrebbero traviato la mia bambina, perché non era quello il modello femminile che volevo trasmetterle. Che senso aveva parlare di principi, principesse, castelli e fate a una bambina nata nel 2016? E così un po’ le storie le modificavo, un po’ cercavo di proporgliene altre.
L’offerta della letteratura per l’infanzia è quanto mai ricca e ci sono molti autori che hanno saputo inventare un nuovo modo di raccontare favole, creando storie delicate, affettuose e positive. Eric Carl, Maurice Sendak, Julia Donaldson, Leo Lionni, solo per citarne alcuni, hanno scritto albi illustrati che sono diventati nuovi classici. Mi sono gettata a capofitto in queste storie, chiudendo in un cassetto tutte quelle assurde fiabe della mia infanzia. Però poi qualcosa è cambiato.
Due anni fa, nell’estate del 2020, mi trovavo nella mia casa sull’appennino con le mie due bambine e un terzo di appena qualche settimana nella pancia. Eravamo partiti in fretta e furia, stremati dal lungo lockdown trascorso chiusi fra le quattro mura di un appartamento senza giardino. Mi ero portata dietro qualche albo illustrato, ma la sera mi sentivo molto stanca e, afflitta com’ero dalla nausea e dal mal di testa, desideravo solo ritrovarmi stesa sul letto al buio. E così, nel silenzio delle notti estive scandito dal latrare dei cani da caccia, ho chiesto alle mie bambine se, invece di leggere un libro, potesse andare bene ascoltare una storia al buio.
Inizialmente non ne sono state entusiaste, ma poi, piano piano, si sono abituate alla novità. Ho domandato loro quale storia volessero ascoltare. «Cenerentola» ha risposto prontamente la più grande. E così mi sono messa a raccontare la fiaba. Inizialmente cercavo di modificare la narrazione, di renderla più moderna, di dire loro che alla festa il principe e Cenerentola non avevano solo ballato ma avevano anche molto conversato, e che quando poi, dopo la rivelazione della scarpetta perfettamente calzata, la piccola orfana era arrivata a palazzo si era presa del tempo per decidere se sposare o meno il bel principone.
Le bambine mi ascoltavano, ma quando provavo a dilungarmi in queste precisazioni mi interrompevano, come a dire mamma, vai al sodo. Stessa storia per Biancaneve. «Non è che la principessa sputa la mela, apre gli occhi e subito se lo sposa!» dicevo io, ma loro prontamente mi rispondevano: «Ma sì mamma, è così. Lui l’ha salvata!» E Cappuccetto? Ora, vi pare possibile che una bambina non si renda conto che quel coso peloso, con gli occhi gialli e delle zanne bavose forse non è la sua nonnina cara? Per non parlare di Raperonzolo! Quel genio di ragazza potrebbe tagliarsi i capelli e fuggire subito col suo bel principe, e invece no, la vanesia preferisce farsi portare un filo di seta ogni sera e poi, per somma cretineria, le scappa detto proprio a madre Goethel che, sì, in effetti, lei è parecchio più pesante da tirare su del suo amato.
E Bella, che nel panorama desolante delle principesse sembra essere quella più assennata, non è che poi sia così sveglia. Lasciamo perdere la fiaba Disney e prendiamo quella di Perrault. Bella non ha alcun motivo di andare nel castello di Bestia ma decide, per non infrangere la parola data da quel pusillanime del padre, di sacrificarsi a un destino ingrato. Potrei andare avanti nel mio lungo elenco, ma temo di diventare tediosa. Piuttosto, se è tanto tempo che non prendete in mano un libro di fiabe, fatelo. Che siano quelle dei fratelli Grimm, di Perrault, di Gianbattista Basile: tutte ripropongo archetipi simili e fanciulle che vanno incontro a destini molto simili fra loro.
E quindi durante il mese trascorso sui monti, ho lasciato perdere tutte le mie velleità razionali e edificanti, raccontando le storie così come le avevano raccontate a me, a volte arricchendo o togliendo dettagli, ma seguendo in questo caso come unica guida l’interesse genuino che suscitavano. Ciò che mi sbalordiva è che a loro quelle storie piacevano, e tutti quei passaggi che a me parevano illogici o eccessivamente crudeli o dannatamente ingenui, in loro creavano meraviglia.
Quando siamo tornati a casa a Firenze, a settembre, ho ricevuto la visita di mia zia. È la sorella di mia madre, più giovane di lei di dieci anni e i suoi figli sono nati quando io ero ormai una ragazza. A loro avevo regalato i miei libri di fiabe, e quel giorno di settembre mia zia aveva deciso di restituirmeli. Li ricordavo tutti distintamente, come se li avessi avuti fra le mani qualche minuto prima. Fra questi uno in particolare colpì la mia attenzione. Non era un volume di pregevole fattura, ma ne serbavo nella memoria ogni singola illustrazione. E cosa più importante, ricordavo la sensazione che quelle fiabe mi avevano dato tanti anni prima. Il senso di sogno, magia, viaggio fantastico che leggere quelle storie riusciva a trasmettermi. A quel tempo non le trovavo assurde o irrazionali, erano esattamente come dovevano essere.
Se allora tutto era semplice, perché non lo era più? Cosa avevo perso per strada in tutti quegli anni, cos’era quel quid che le mie figlie vedevano così bene e che invece a me ora sfuggiva?
Un testo, peraltro molto noto, mi è venuto in soccorso. Bruno Bettelheim, in Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, cerca di dare un’interpretazione psicoanalitica delle fiabe. Mi sono avvicinata a questa lettura con curiosità e scetticismo; Bettelheim è una figura controversa nel mondo della psicoanalisi. Considerato in vita un erede della psicoanalisi viennese, un allievo degli allievi di Freud, dopo la sua morte è stato duramente criticato da chi non apprezzava i suoi metodi terapeutici e da chi quei metodi li aveva subiti. Nonostante ciò, i suoi testi godono ancora di un’ottima fama e fra questi il più celebre è appunto Il mondo incantato.
Le fiabe, secondo Bettelheim, catturano l’attenzione dei bambini, li divertono, suscitano il loro interesse e stimolano la loro attenzione; è questo dunque il migliore mezzo che hanno gli educatori per comunicare con loro, per trasmettere loro dei messaggi positivi. Leggendo il testo, per la verità spesso ripetitivo, ho trovato alcune risposte alle domande che mi frullavano in testa.
Per prima cosa ho scoperto che la fiaba non deve spiegare nulla. La fiaba è allusiva, la fiaba insegna parlando all’inconscio, all’irrazionale, alla parte di noi che è fuori dal nostro controllo razionale. È stata per me una delle cose più difficili da comprendere. Nella mia quotidianità, nei momenti di difficoltà, nelle sfide di ogni giorno io cerco di spiegarmi le cose razionalmente, di dargli un capo e una coda, di trovargli una logica. È il mio approccio ai problemi.
Ma un bambino non è un adulto. I bambini spesso non sanno cosa succede loro, non riescono a spiegarselo, e questo gli provoca angoscia. E cercare di tranquillizzarli parlando alla loro parte razionale serve a poco, o forse a nulla. Il bambino come tutti noi si trova ogni momento in un marasma di sentimenti contraddittori. Ma mentre gli adulti hanno imparato a integrarli, il bambino è sopraffatto da queste ambivalenze interiori. Egli percepisce il miscuglio di amore e di odio, desiderio e paura che ha dentro di sé come un incomprensibile caos. Non è capace di sentirsi nello stesso momento buono e ubbidiente ma anche cattivo e ribelle, eppure è così. Non può comprendere le gradazioni e le sfumature, per lui le cose sono completamente chiare o completamente scure. Una persona è tutta coraggio o tutta paura, la più felice o la più disgraziata, bellissima o bruttissima, intelligentissima o ebete. Prova amore o odio, mai un sentimento intermedio.
È così che la fiaba descrive il mondo: i personaggi sono incarnazioni della ferocia oppure la bontà e la generosità in persona. I pensieri di un bambino piccolo non si susseguono con ordine; a differenza di quelli di un adulto, le fantasticherie del bimbo sono i suoi stessi pensieri. Offrire a un bambino il pensiero razionale come strumento principale per distinguere i propri sentimenti avrebbe l’unico effetto di confonderlo. Ascoltando le fiabe il bambino vive i suoi stessi conflitti interiori. Il primo e più importante è quello con i propri genitori: con il padre e, ancora più doloroso, con la madre.
Ricordo che da bambina avevo un rapporto molto stretto con quella che all’epoca era la mia unica cugina, di appena dieci mesi più piccola di me. Viveva in un altro paese e ci frequentavamo solo durante le pause scolastiche, ma per me era la sorella che non avevo avuto. Volevo molto bene a mio zio, il fratello di mia madre, mentre mia zia, che pure era una donna affettuosa e amorevole con sua figlia, mi incuteva soggezione. Ricordo che nei miei sogni a occhi aperti me la raffiguravo come una sorta di matrigna crudele e cattiva, e fantasticavo di rapire la mia cuginetta per sottrarla al suo, a mio parere, terribile dominio.
Ovviamente mia cugina amava moltissimo sua madre e mai sarebbe fuggita con me. Ma è stato solo leggendo il libro di Bettelheim che ho capito come in realtà io stessi proiettando su un’altra figura materna tutto l’astio, il rancore e l’odio che talvolta provavo nei confronti di mia madre. Provare questi sentimenti per mia madre mi avrebbe fatto orrore, e allora li giravo all’indirizzo della malcapitata zia. È stato questo a farmi pensare con occhi nuovi a tutte le matrigne e streghe dei racconti. E se in fondo l’origine di tutto fosse proprio l’odio che a volte ci travolge contro chi ci ha messo al mondo?
In alcune versioni di Biancaneve è proprio la madre, e non la matrigna, a ordinare al cacciatore di uccidere la figlia e portarle il cuore. Una versione estrema che ha lasciato il posto a quella più celebre in cui l’antagonista non è la madre biologica. Ma sempre madre è. Anche in Raperonzolo troviamo una strega che fa da madre a una neonata sottratta ai genitori. Non è una madre crudele, nella versione dei fratelli Grimm si dice chiaramente che «non fa mancare nulla alla bambina» e che decide di chiuderla nella torre solo quando teme di essere abbandonata. Raperonzolo non può accettare di restare imprigionata, deve crescere, liberarsi, scappare. Ma è il senso di colpa a tradirla, quando confessa involontariamente a madre Goethel il suo progetto di fuga.
Cenerentola ha un animo gentile e amorevole, ed è maltrattata anche dalle sorelle. Non sa difendersi, subisce e basta. Perché mai, mi dicevo fra me e me, le mie figlie non si indignano, perché non si ribellano? I primi tempi, quando ancora cercavo di modificare le fiabe, puntavo il dito contro le sorellastre, sottolineavo la loro pigrizia, la loro nullafacenza paragonata alla mite industriosità di Cenerentola. Devo avere talmente calcato la mano che Luisa, che all’epoca aveva tre anni, tornando a casa un giorno e trovando il letto sfatto aveva esordito apostrofando il padre (perché era in effetti lui il responsabile di tutto quel disordine): «Babbo, sei proprio una sorellastra!»
Mi sono poi resa conto che molte fiabe tradizionali sono imperniate intorno alla figura di un bambino “tardo” che il resto della famiglia tiene in scarsa considerazione. Il fatto che sia dichiarato stupido viene presentato come un fatto della vita in sé, che non desta particolare preoccupazione. I bambini tendono a identificarsi con lui molto prima che si riveli superiore a coloro che lo disprezzano, cosa che poi puntualmente accade. Perché succede questo? Perché questi personaggi riscuotono maggiore successo delle storie che parlano di eroine forti ed emancipate?
La risposta che dà Bettelheim, e che non posso fare a meno di condividere, è che una bambina (o un bambino) per quanto possa essere intelligente, si sente stupido e inadeguato quando si trova di fronte alla complessità del mondo che lo circonda. Chiunque sembra saperla tanto più lunga di lui ed essere tanto più capace. Ricordo una sera in cui mia figlia Luisa, stesa nel suo letto qualche minuto prima di lasciarsi andare a un sonno ristoratore, era scoppiata in un pianto dirotto. Sorpresa, tentai di consolarla, di capire le ragioni di quello sfogo improvviso. La causa era probabilmente la stanchezza, ma le ragioni erano più profonde.
A singhiozzi, con gli occhi rossi e la voce rotta, aveva prorotto con: «Mamma, io non voglio che tu muoia.» E lì, a parte fare i dovuti scongiuri, mi ero intenerita per cotanto amore filiale. Subito dopo però aveva proseguito: «Mamma, io non so cucinare. Come faccio se muori? Non so nemmeno accendere il forno, non so qual è il bottone.» Ora, lì per lì mi sarebbe venuto da ridere, ma mia figlia era seriamente disperata, per cui l’ho consolata promettendole che l’indomani le avrei spiegato come funzionava il forno. Fortunatamente la mattina seguente aveva dimenticato tutto. Questo per dire che i bambini sanno che senza i loro genitori sono fritti.
Per questo un’altra storia celeberrima, quella di Hänsel e Gretel, riscuote così tanto successo: perché scava nella paura profonda e terribile dell’abbandono. E anche in questa fiaba, guarda caso, l’artefice dell’abbandono, colei che insiste affinché i bambini vengano portati e lasciati nel bosco, è proprio la madre (o la matrigna, nelle versioni più edulcorate). Madre o matrigna, che però ha il buon gusto di essere già morta (giusta punizione divina) quando i bambini dopo tante peripezie fanno finalmente ritorno a casa.
L’idea di trovarsi soli di notte in un bosco incute un genuino terrore nei bambini. Ricordo distintamente la paura che io provavo quando ancora piccola osservavo la scena della Biancaneve disneyana che si perde nel bosco e che, nella sua fuga disperata, percepisce tutto ciò che la circonda come minaccia: i tronchi trascinati dal ruscello diventano coccodrilli dalle fauci spalancate, i rami degli alberi mani ossute che la afferrano, gli occhi degli animali lo sguardo feroce di mostri assassini. Povera Biancaneve, quando si accascia piangente nella radura ha tutta la nostra compassione.
D’altronde anche lei, come Cenerentola, è una povera ragazzina maltrattata e voluta morta da una matrigna ossessionata dalla propria bellezza. Ma è proprio la fragilità di Biancaneve che fa sì che il bambino vi si identifichi, perché è la sua stessa fragilità. Al contempo però è molto affascinato dalla matrigna. La regina Grimilde era stata inizialmente pensata nel film di animazione del 1937 come una figura grassa, brutta, cartoonesca e compiaciuta di sé. Fortunatamente Walt Disney rifiutò l’idea e sviluppò piuttosto la regina come un mix di Lady Macbeth e il Lupo Cattivo, chiedendo che fosse «una donna maestosa dal collo alto.»
Non è un caso se i tratti del viso di Grimilde sono ispirati a quelli di Joan Crawford, che, per inciso, aveva raggiunto il successo interpretando negli anni ‘30 e ‘40 una nuova generazione di giovani donne americane ambiziose, autonome e determinate. In effetti è proprio la carismatica regina a rubare la scena quando si mette davanti allo specchio e gli si rivolge dicendo: «Specchio, servo delle mie brame.» E, come nota la mia seconda figlia, ha un rossetto bellissimo.
Proprio sulla fiaba di Biancaneve, Maria Tatar, un’accademica statunitense esperta in letteratura per bambini e folklore, ha incentrato il suo ultimo libro: La più bella del reame. Biancaneve e altre 21 storie di madri e figlie. Questa fiaba è un topos ricorrente e presente in quasi tutto il mondo. Maria Tatar ne raccoglie ventuno versioni, dalla prima, la più celebre, quella dei Fratelli Grimm, a quella napoletana La schiavetta di Gianbattista Basile o ancora a quella giapponese Lo specchio di Matsuyama.
Il dramma di Biancaneve è un dramma familiare, perché nelle fiabe le famiglie infelici si assomigliano un po’ tutte. Fratelli e sorelle sono spesso rivali, i genitori nel migliore dei casi sono egoisti e nel peggiore mostri assetati di sangue. La sventura che perseguita l’eroina spesso nasce da una disgrazia, come la madre di Biancaneve che muore di parto o, secondo le versioni, quando la figlioletta ha pochi anni, oppure può essere causata da una fata indispettita che pronuncia un maleficio, o ancora da genitori incapaci di tenere a freno le loro voglie (il desiderio di un ortaggio, come in Raperonzolo, o la smania di avere un figlio anzitempo) e che suscitano l’ira di una strega. Molto più frequentemente però sono proprio i genitori a causare la sventura dei figli. Perché mai?
In una cultura come la nostra che idealizza il rapporto genitori-figli, e in special modo madre-figlio, che senso ha raccontare fiabe di famiglie così orribili? E perché le mie figlie (che spero mi vedano non così cattiva come la matrigna di Biancaneve) ne sono tanto affascinate? Perché lo ero io come lo sono loro adesso quando non avevo ancora raggiunto la pubertà? Se diamo retta all’interpretazione di Bettelheim la ragione intima è che queste storie raccontano del processo di progressiva emancipazione del bambino dalla figura genitoriale.
A titolo di esempio riporta una fiaba, I tre linguaggi, in cui un padre, insoddisfatto del figlio che reputa stupido, lo spedisce da un famoso maestro affinché impari qualcosa di utile. La prima volta che rientra a casa il figlio ha imparato «quello che dicono i cani quando abbaiano.» Infuriato, il padre lo spedisce da un secondo maestro, ma anche qui tutto quello che il figlio apprende è «quello che dicono gli uccelli.» Ancora più incollerito, il padre lo manda dall’ultimo maestro, ma quando il figlio ritorna tutto quello che ha appreso è «quello che le rane gracidano.» Furibondo, il padre lo caccia di casa e ordina ai servitori di portarlo nel bosco e sopprimerlo. Ma i servi hanno pietà del ragazzo e lo lasciano libero.
Il ragazzo inizia la sua peregrinazione nel mondo, dove mette a frutto ciò che ha imparato fino ad arrivare a Roma, dove con l’aiuto di due colombe sale al soglio pontificio. In questa fiaba è facile vedere come l’ira del genitore non sia dovuta al fatto che il figlio lo superi in bellezza, come accade in Biancaneve, ma perché non apprende ciò che secondo lui è meritevole di venire imparato. Il figlio sceglie un percorso di crescita diverso da quello che vorrebbe il padre e incappa nella sua ira. Quando viene portato nel bosco però i servitori, come il cacciatore di Biancaneve, non hanno cuore di ucciderlo e lo lasciano libero, questo perché, fa ancora notare Bettelheim, il conflitto del ragazzo non è con il mondo adulto (anzi, sono proprio i tre maestri a insegnare al ragazzo il linguaggio degli animali) ma con i genitori, esattamente come accade in adolescenza.
Il ragazzo deve emanciparsi dall’autorità paterna e trovare la propria strada, che lo porterà, come nel caso di questa fiaba, alla più alta realizzazione simboleggiata dal soglio pontificio. Nel caso di Biancaneve invece la più alta realizzazione è il matrimonio con il bel principe, ma d’altronde sarebbe stato assai improbabile trovare un finale diverso, dato che le fiabe della tradizione orale sono frutto di lunghi secoli di patriarcato. Le mie figlie non storcono la bocca di fronte a questo finale, non se ne sentono svilite come invece mi sento io, ma è anche vero che a differenza loro io sono una donna ormai adulta che sente sulle spalle l’eredità pesante di quel modello sociale.
Per loro è un finale felice, nulla di più. Penso che quando verrà il momento racconterò loro storie di donne che hanno plasmato il loro destino in barba ai condizionamenti, ma questa è un’altra storia, e non è una fiaba. E il finale lieto, che non è scontato nella vita vera, è assolutamente imprescindibile nelle fiabe. Il bambino attraverso questa narrazione si crea la sua visione del mondo, del proprio percorso di crescita, e deve credere che tutto finirà bene e andrà per il meglio. Il tanto vituperato «e vissero felici e contenti» che talvolta viene usato per disprezzare i prodotti commerciali della Disney non è affatto una loro invenzione, non è buonismo, non è un mieloso «vogliamoci bene.» C’è perché se non ci fosse non sarebbe una fiaba e ai bambini non potrebbe piacere.
Però, c’è un però. Il finale lieto è solo per i protagonisti della fiaba, per l’eroina e l’eroe. Gli antagonisti, i cattivi, fanno una brutta fine. E i bambini non provano pietà per loro, anzi, a loro sembra giusto e naturale. La strega disneyana di Biancaneve muore schiacciata travolta da un masso mentre tenta di seminare i sette nani, quella tramandata dai fratelli Grimm invece viene invece invitata al matrimonio di Biancaneve e costretta a ballare per tutta la notte con indosso delle scarpe di metallo arroventato fino a che crolla a terra morta stecchita. Che dire? Un horror ante litteram. In questo finale felice, anche se non per tutti, le fiabe sono molto diverse dalle favole. A casa ho un libro con le favole di Esopo, e devo dire che anche queste riscuotono un discreto successo, sebbene non quanto le fiabe.
La ragione? Le favole hanno il brutto vizio di insegnare e spiegare. E, cosa ancora più brutta, non hanno il lieto fine. Prendiamo la cicala e la formica. La cicala dopo avere cantato per tutta l’estate bussa alla porta delle operose formiche. Ma queste, con cuore di pietra, le rispondono che non hanno grano da darle, e che, visto che ha tanto tanto cantato, che ora balli. Ecco, il bambino capisce che la cicala non si è comportata bene, che non ha fatto come la previdente formica, ma non può certo identificarsi in lei.
Al contrario, il bambino si identifica nei tre porcellini, e poco importa che i primi due finiscano nelle fauci del lupo. Il terzo si salva e mette in fuga il pericoloso predatore dopo avergli sbruciacchiato coda e deretano. È come se i tre porcellini rappresentassero tre diversi stadi di crescita del bambino, dal più giovane, che non si preoccupa in alcun modo del futuro e delle conseguenze delle proprie azioni, al più anziano e saggio, che invece riesce a prevedere ed evitare i pericoli. La concezione della giustizia del bambino è offesa dal fatto che la povera cicala debba morire di fame, mentre il suo senso di onestà è soddisfatto della punizione del lupo.
È altresì soddisfatto della morte della matrigna di Biancaneve, dell’uccisione del lupo di Cappuccetto, della cameriera della Guardiana delle oche gettata nel fango insieme ai maiali, della fine della strega di Hänsel e Gretel bruciata viva nel forno nonché della morte della loro madre. Era stata lei a insistere per abbandonarli nel bosco e i bambini non ne provano certo nostalgia.
Nelle fiabe le madri che vengono rimpiante il più delle volte sono quelle morte di parto o alle quali viene sottratto il figlio a causa di un accordo scellerato. Le altre, quelle che restano, sono spesso crudeli e vendicative. Se guardiamo la cosa dall’angolazione di Bettelheim (maschio bianco nato in Austria nel 1903) scopriamo che il suo è il punto di vista del figlio, del bambino che ascolta la fiaba, e quindi, come più volte sottolinea, queste figure crudeli sono un modo per affrontare sentimenti di astio e odio che i figli provano nei confronti delle madri. Ma se accettiamo quella di Bettelheim come l’unica prospettiva perdiamo di vista chi c’è dall’altra parte, ovvero chi racconta le fiabe.
Non dimentichiamoci che le fiabe che noi oggi conosciamo nella loro versione scritta si possono tutte ricondurre alla tradizione orale. Dovevano essere ricche di melodramma e mistero perché il loro scopo principale era far passare il tempo e alleggerire il ciclo delle incombenze domestiche. Queste fiabe possedevano una forza narrativa e una magia verbale tali da produrre piacere in chi ascoltava ma anche in chi raccontava, in un’epoca in cui la vita era spesso breve, dura e brutale, ma anche monotona e scialba. E spesso raccontavano l’indicibile, che non era solo il sentimento di odio di un figlio o una figlia nei confronti di una madre ma, cosa assai più scandalosa, dell’odio di una madre nei confronti della propria prole.
Sebbene mettere in discussione l’amore materno sia qualcosa che incute terrore, perché l’idea di non essere amati nemmeno dalla propria madre è un boccone amaro da mandare giù, spesso è proprio quello che fanno le fiabe. La maternità implica da sempre non solo la capacità biologica di dare la vita, ma anche l’attività sociale della genitorialità empatica e compassionevole (perché non basta capire cosa l’altro prova, ma anche provare pietà quando si è di fronte alla sua sofferenza). E le madri delle fiabe, gelose, avide, impazienti e crudeli, mettono in crisi questo modello.
Adrienne Rich, poeta e femminista statunitense, ebbe un enorme coraggio nel parlare della «squisita sofferenza dell’essere madre.» È la sofferenza dell’ambivalenza, «quell’alternarsi micidiale tra l’aspro risentimento e i nervi tesi da un lato, e la beata gratificazione e la tenerezza dall’altro.» Perché, anche se non si ha avuta la sventura di capitare in una famiglia profondamente disfunzionale, non per questo noi figli e figlie non abbiamo profondamente odiato i nostri genitori. E, udite udite, anche le nostre madri lo hanno fatto. Per rapidi istanti, nel migliore dei casi, o per intere epoche della nostra esistenza, negli altri.
Cara Luisa, non so perché nelle fiabe ci siano sempre le streghe, o le matrigne e le fate crudeli. Quello che so è che a volte io stessa mi immedesimo nei genitori di Hänsel e Gretel e nella loro scellerata idea di abbandonarti nel bosco. E altre volte, quando nello specchio vedo la mia immagine sfiorita e il mio corpo rovinato dallo scorrere inesorabile del tempo e delle gravidanze, ti fisso e vedo la tua pelle liscia, gli occhi entusiasti e tutta la vita davanti che ancora ti aspetta. E io mi sento Grimilde, invidiosa di ciò che tu hai e io ho non più, e vorrei farti sparire. E quando ti immagino ormai adolescente, pronta ad abbandonarmi e a spiccare il volo nel vasto mondo, vorrei fare come madre Goethel e chiuderti in una torre altissima. Sono attimi, e fanno parte di me, così come l’amore immenso che provo per te.
Federica Sazzini
Foto in alto: Federica Sazzini
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