Dalla tenacia di una giovane donna nasce Quelle del Baito, un’interessante realtà agricola di Erbezzo dedita alla lavorazione e produzione di carni e formaggi ovicaprini.
Barbara Crea è una giovane donna originaria di Treviglio, paesone della bergamasca, titolare di Quelle del Baito, piccola azienda per la produzione e vendita di formaggio e carne di capra e pecora, latte crudo di pascolo. Sono salito a incontrare Barbara presso il caseificio di contrada Scalchi, in magnifica posizione sopra il Vajo dell’Anguilla. Siamo nelle vicinanze di Erbezzo, paese cimbro della Lessinia veronese.
Barbara e il suo compagno Fabrizio lavoravano in una cooperativa sociale, lei in ufficio e lui in giardino. A un certo punto decidono di dare una svolta alla loro vita, lasciano la cooperativa, si mettono in proprio e si avventurano in un progetto in provincia di Trento. Il progetto però non decolla e quindi ritornano sui propri passi. Nel viaggio verso casa salgono a vedere la Lessinia, arrivando da Ala. Passo Fittanze, Erbezzo.
È stato amore a prima vista: «Siamo quassù dal 2009, prima con un progetto che si chiamava Il Baito del Bosco, realizzato assieme ad Andrea, un ragazzo della zona, incontrato quasi “per caso”. Poi le strade si sono divise. Andrea e Fabrizio volevano provare anche dell’altro mentre io volevo proseguire l’esperienza. A quel punto l’azienda è cambiata ed è diventata Quelle del Baito».
«Noi siamo nati» prosegue Barbara «in una contrada abbandonata sotto Erbezzo, dove avevamo realizzato abusivamente una tettoia per gli animali; poi ci siamo trasferiti completamente e il primo formaggio l’abbiamo realizzato proprio in un baito nel bosco.»
Eravate già esperti di latte e allevamento, oppure avete fatto tutto da soli?
«Non eravamo esperti. Però prima di trasferirci in Trentino, diciamo tra il 2004 ed il 2007, abbiamo investito il nostro tempo libero andando a lavorare gratuitamente nelle aziende agricole di alcuni amici. Sia io che Fabrizio avevamo una passione per gli animali. Questa passione per gli animali mi portò fin da ragazzina a lavorare, nei fine settimana, in un allevamento di cavalli e cani. Aggiungiamo poi che i miei bisnonni avevano campagna. Insomma posso dire che ho sempre vissuto la realtà contadina e che ho aspirato a questo modello di vita fin da giovanissima.»
La montagna è un ambiente sempre un po’ diffidente, un po’ particolare; nulla a che vedere con i territori urbanizzati. In montagna anche la gente è diversa. Come vi hanno accolto gli abitanti della Lessinia?
«Ci hanno accolto bene tanto che il vicino di casa mi ha insegnato a fare il formaggio, il monte Veronese come si faceva una volta, sul paiolo di rame. Queste sono tradizioni che si insegnano solo all’interno della famiglia, i famosi segreti professionali. Invece il mio vicino mi ha preso come una figlia e insegnato tutto. Sicuramente questa è una delle cose che mi ha gratificato di più a livello personale e sociale.»
Avete deciso per capre e pecore, in un luogo da lungo tempo vocato alla monticazione delle mucche.
«Sì, capre e pecore. Era atipico per la Lessinia e tuttora siamo tra i pochissimi che allevano all’aperto, al pascolo, e che producono latte in malga, con capre e pecore. Anche la realtà delle mucche è cambiata. Negli anni sono diminuite drasticamente le mucche da latte. Ora la presenza prevalente è quella delle manze o altri animali da carne. Purtroppo quasi nessuno produce latte in malga, in alpeggio o al pascolo. Grazie a finanziamenti pubblici, in Lessinia ci sono grandi stalle ipertecnologiche dove vengono tenuti gli animali in lattazione mentre al pascolo vengono mandati quelli più giovani, quelli che non “producono”.
Il grande cambiamento arriva dalla fine degli anni 90 del secolo scorso, subito dopo la costruzione di queste grandi stalle. Prima si mandavano in montagna gli animali da latte, si mungeva in montagna e quindi le malghe erano abitate e gestite con animali adulti e grossi. Adesso invece, con la costruzione delle grandi stalle, che si possono vedere nei dintorni anche di Erbezzo o di Bosco, si preferisce mungere in stalla piuttosto che in alpeggio. Così, progressivamente, sono aumentati i boschi e abbiamo favorito la prolificazione di animali selvatici che erano quasi scomparsi. Prima c’è stata la reintroduzione delle marmotte, che è andata un po’ fuori controllo, poi i cinghiali e in seguito sono arrivati tutti i piccoli animali, roditori e altri; di conseguenza sono arrivati e aumentati pure i predatori e i rapaci, fino ad arrivare al ritorno spontaneo del lupo.»
Il lupo ha imposto cambiamenti nella gestione del pascolo e dell’alpeggio. Anche voi vi siete dovuti, giocoforza, confrontare col lupo. Come è andato questo incontro?
«Inizialmente, un po’ come tutti, avevamo sottovalutato la situazione. Nel luglio del 2014 infatti, avevamo appena comprato casa e terreno e dentro ci avevamo messo le pecore di un anno e mezzo, pronte a partorire. I lupi ne hanno mangiate quattro. Da quel momento ci siamo subito attivati. Ho chiamato il pastore marchigiano, che mi aveva venduto le pecore nel 2009, e siamo andati da lui a prendere due cani da pastore abruzzesi. Poi nel 2016 abbiamo cercato un maschio adulto che sapesse già lavorare. Siamo saliti in alpeggio con questi tre cani che non sono comunque bastati a difendere completamente il gregge. Poi abbiamo realizzato un recinto per la notte, di rete elettrosaldata, circa duecento metri quadri, in modo che almeno di notte fossero sicure e al riparo. Non è bello ma è funzionale poiché permette di avere gli animali lì, comodi e pronti alla mungitura.
Nonostante i cani da guardia e la rete elettrosaldata abbiamo avuto qualche predazione nel 2016 e qualcuna nel 2017, comunque sempre dovute a sviste o cattiva gestione da parte nostra. Ecco, mi viene in mente un fatto che risale all’ottobre del 2017. In quell’occasione i lupi predarono una pecora e due agnelli nati al mattino. Era scoppiato un temporale e la pecora con i due agnellini non era tornata. L’abbiamo cercata per un po’, poi pioveva e non avevamo voglia di bagnarci troppo. L’abbiamo lasciata fuori dicendoci “figurati se proprio stasera…”. E infatti.»
Il lupo è un animale paziente…
«Il lupo ripassa sempre. Tuttora lui passa dalla nostra malga e ci prova. Però finalmente abbiamo un gruppo di cani affiatato, che lavora insieme da anni, una famiglia, un branco di cani di cui siamo molto contenti perché lavorano bene, sono socievoli e non ci hanno mai dato problemi con i turisti. Qualcuno, a dire il vero, si lamenta perché i cani gli abbaiano contro, ma loro non hanno mai aggredito nessuno. Diciamo che i frequentatori della montagna, dopo dieci anni di presenza del lupo, dovrebbero essere ben disposti ad alcune limitazioni. Così come noi allevatori non possiamo più lasciare gli animali fuori di notte, incustoditi, allo stesso modo chi viene in montagna a camminare o in bicicletta deve essere cosciente che il rispetto per la natura e la biodiversità e il nostro lavoro deve diventare pratica costante anziché rimanere solo una teoria.
Quest’anno abbiamo deciso di cambiare metodo di gestione del gregge e così, anziché tenerlo dentro il recinto posto lungo tutto il perimetro della malga, che qualche problema l’ha sempre dato, abbiamo deciso di sperimentare il porzionamento del terreno con reti elettrificate che spostiamo ogni due giorni. In questo modo gregge e cani possono svolgere il proprio compito con un livello di stress decisamente inferiore all’attuale.»
Si riesce a vivere lavorando con la montagna, in montagna?
«No, non ce la si fa. Già prima era molto difficile, ma quest’anno poi, con il rilevante aumento dei prezzi che stiamo subendo, è molto difficile stare sul mercato con dei prezzi che vorrebbero essere popolari. Fortunatamente, fin da subito, ci siamo buttati nel mondo del consumo critico e lavoriamo solo con i Gruppi di Acquisto Solidale, oppure nei piccoli mercati contadini autogestiti e in rete con chi la pensa come noi. Ci siamo ritagliati un mercato di nicchia dove riusciamo a mantenere dei prezzi “corretti” che però non pagano tutte le ore di lavoro necessarie alla produzione. Diciamo che siamo ripagati da tutto il resto.
La Rete dei Gas e quella dei Mercati Contadini sono realtà importantissime perché permettono di intercettare e soddisfare la richiesta, in costante aumento, di cibo genuino e non industriale. Purtroppo, nello stesso momento è in forte calo il potere di acquisto delle persone. In sostanza la gente ha più coscienza ma meno soldi.»
Barbara Crea, ci parla della sua azienda e del suo lavoro?
«Abbiamo sei cani e un centinaio tra capre e pecore in lattazione, diciamo cinquanta e cinquanta. Facciamo lo svezzamento naturale e quindi i capretti e gli agnelli stanno con le loro mamme fino al completo svezzamento. Iniziamo a produrre latte da Pasqua fino a novembre, in pratica solo durante il periodo di pascolo. Questa era proprio la nostra intenzione iniziale e ci sono voluti anni per arrivarci. Volevamo arrivare a produrre latte di pascolo, ma per far questo occorreva avere sufficiente terreno per poter pascolare gli animali. Ma i proprietari dei terreni di montagna sono sempre restii e titubanti nella stipula di contratti a lungo termine per l’affitto dei pascoli. E così ci troviamo a dover rinnovare contratti di affitto di tre anni oppure di cinque. La nostra è quindi una situazione sempre un po’ “ansiosa” poiché è difficile pensare allo sviluppo di un’azienda con tempi così limitati.
Quando termina il pascolo, con il ritorno degli animali dall’alpeggio, il loro nutrimento diventa il fieno che acquistiamo all’interno della nostra rete di produttori. Il nostro fornitore principale è un produttore della Valpantena. Lui produce frumento e grani antichi mentre una parte dei terreni li lascia a erba medica e prato. Il suo fieno è un mix ideale per le nostre pecore e le nostre capre. La maggior parte del fieno la acquistiamo da lui, il rimanente da un produttore di pianura.»
Le andrebbe di descrivere una sua giornata normale?
«Mi alzo alle sei, sei e mezza, spesso prima, dipende dalla stagione. Accudisco gli animali… galline, vecchi asini che non sono in montagna e il resto degli animali di casa, quindi presto attenzione a mia figlia che se ne va a scuola. Poi è il momento di andare in caseificio, arriva il latte, si comincia la lavorazione del formaggio, si sistemano i formaggi del giorno prima. Al pomeriggio salgo all’alpeggio. Anche lì il lavoro non manca. Dopo la sistemazione del recinto notturno, bisogna riempire i contenitori dell’acqua per l’abbeverata, quindi, verso le 18 si comincia a rinchiudere gli animali. Ogni due giorni effettuiamo lo spostamento delle reti in modo che la mattina successiva escano su un pezzo di terreno nuovo. Infine ritorno a casa dove ci sono da sistemare e rinchiudere galline e asini, poi cena e a letto. Nella seconda parte della settimana, dal giovedì alla domenica, c’è la variabile dei mercatini e quindi mentre io mi occupo prevalentemente di questi ultimi, qualcun altro gestisce la parte degli animali e del caseificio.»
Quanti siete a gestire il tutto?
«Attualmente siamo in due. Dopo che Andrea se ne andò ci fu un operaio, un ragazzo del Burkina Faso che l’anno scorso, dopo cinque anni di collaborazione con noi, decise di trasferirsi giù a Verona, dove avrebbe potuto incontrare maggiori occasioni per il suo futuro. Quest’anno abbiamo pensato di arrangiarci da soli. Essendo in meno, abbiamo deciso di passare da due mungiture al giorno a una sola. Ovviamente la produzione è inferiore a quella degli anni scorsi. Qualche aiuto lo abbiamo dai woofer che in cambio dell’ospitalità danno una mano nei lavori. Poi c’è mia figlia Ada, di quattordici anni, che riesce a sostituirmi in tutto il ciclo, compreso quello del formaggio, quando io mi assento per quei due o tre giorni durante l’estate.»
Sua figlia come vive il rapporto con questo lavoro particolare, la montagna e la relazione con amici e amiche?
«Io penso che visti i risultati lei se la goda parecchio perché lei adora vivere in montagna, adora i suoi amici, il paese. Quando le dico andiamo a trovare i nonni in città oppure andiamo a far spesa al supermercato… ecco, questo proprio non le piace. Qui ci sta da dio. Magari il rapporto con gli animali non è il suo forte però in caseificio se la cava alla grande e pure nei mercati. È una ragazza che si è dovuta autogestire perché è cresciuta seguendomi nelle mie attività e nei miei lavori quotidiani. È sopravvissuta e questo è un ottimo segno.»
Sono in aumento i giovani che provano a investire il proprio futuro in un lavoro in montagna oppure in una scelta legata alla terra. Di questo movimento voi siete stati antesignani. Prima di voi, sui nostri territori c’era davvero poco. Che impressione le fanno questi giovani, si tratta di ragazzi motivati oppure le loro sono scelte legate più a un’onda emozionale che a una scelta di vita profonda?
«Secondo me c’è una fascia davvero motivata di persone che ha fatto propria la necessità di ritornare a produrre e mangiare in maniera diversa dal modo in cui ci hanno spinto negli ultimi decenni. Un’altra parte di questi giovani parte un po’ allo sbaraglio, mossa un po’ dall’onda, quasi un’idea romantica. Però hanno voglia di cercare di capire come funziona. In questo periodo abbiamo con noi una woofer ventiquattrenne, cittadina, barista che voleva provare questa esperienza e qui la può sperimentare sul campo. Non ha idee chiarissime però in questo modo può capire tutte le difficoltà. È un approccio senza filtri. Qui vale la pratica, non i tutorial. Anche noi, a suo tempo, siamo stati in molte aziende agricole di amici per testarci. Tutti ci dicevano guardate che non è tutto rose e fiori, non è che vivere in montagna vai lì a fare Heidi e Peter. Quando hai a che fare con gli animali non c’è febbre, raffreddore oppure covid, ti alzi lo stesso e vai a dar da bere e da mangiare agli animali oppure a mungere. Non c’è Natale, non c’è Pasqua e andare in vacanza è sempre un’incognita e se ci si va lo si fa quasi sempre separati e per periodi limitati. Per fortuna ho fatto questa scelta vicino ai trent’anni e quindi ho avuto la possibilità di sperimentare negli anni precedenti lavori diversi e viaggiare per il mondo, cosa che, ora come ora, chissà quando mi ricapiterà. Forse quando andrò in pensione… ma in pensione non ci andrò mai.»
Questo è uno dei settori dell’imprenditoria storicamente monopolio dei maschi. La tua è una gestione femminile. È una perla rara oppure stiamo davvero assistendo a un grosso cambiamento?
«Secondo me la presenza femminile in agricoltura, negli ultimi anni, è aumentata parecchio in montagna ma anche in pianura. Non sono dati certi, però nella rete di produttori di cui facciamo parte, la maggior parte è donna. È aumentata la coscienza, la convinzione della donna di poter fare ciò che vuole e quindi la presenza in agricoltura si è molto consolidata. Anzi direi che noi donne siamo molto più brave. Prima, il lavoro del casaro era quasi esclusivamente maschile, perché pesante e faticoso. Ma un po’ alla volta si prova e ci si tempra. Anche il mungere in montagna è faticoso e ci vuole prestanza fisica, però con il giusto impegno ce la possiamo fare anche noi. Noi donne siamo sicuramente più avvantaggiate dal punto di vista mentale. Questo non perché voglio fare la femminista, però mi rendo conto che certe cose ci vengono più facili dei maschi a livello mentale.»
Come sono andate le cose nei periodi dei lockdown?
«Nel primo periodo di chiusura per noi le cose sono andate benissimo. È stato un periodo super. Le persone erano come “impazzite” e volevano mangiare solo cose sane, belle, buone e quindi abbiamo lavorato un sacco. I consumi, nel primo lockdown erano aumentati moltissimo, poi sono scesi parecchio. Andavo in giro a manetta a fare consegne sia di carne che di formaggi. Ora è più dura.»
Ci ha raccontato del latte e del formaggio, ma una parte importante del suo lavoro riguarda la carne.
«Anche nel caso della carne seguiamo il ritmo degli animali. I piccoli mangiano sotto la madre e non vengono allevati a mangime. Il tutto rientra nel ritmo naturale delle cose e della vita. Ormai sono quattordici anni che più o meno abbiamo la stessa clientela. All’inizio questi clienti non mangiavano per niente carne di capra o di pecora, tradizione maggiormente radicata al Sud o in Sardegna più che di queste parti. Ora, invece, moltissimi dei nostri clienti non mangiano più carne di manzo ma mangiano carne di capra e pecora, più sana e con minor impatto ambientale.»
Uno degli elementi che ci portiamo dietro dal post covid è stato l’assalto alla montagna. È facile intuire che dove aumentano i numeri delle presenze umane aumentino i problemi e si abbassi il livello della qualità complessiva. Questo ha comportato qualche cambiamento anche per voi?
«Negli ultimi sei anni ho provato a tenere aperto lo spaccio in malga (Malga Derocchetto) perché comoda, proprio sulla strada, ma l’anno scorso ho detto basta. C’è traffico, troppo traffico. Preferisco tenere aperto qui agli Scalchi, una terrazza naturale in cui devi venire apposta. Pochi la conoscono però so che ci viene solo gente interessata. Non sono su una strada dove domenica c’è il delirio di macchine, moto, bici, avanti indietro lungo una strada stretta, a doppia percorrenza con elevato rischio di incidenti, litigi, alterchi, rifiuti abbandonati in ogni dove. Tutto questo comporta stress non solo a me, non solo a noi, ma pure agli animali. Ecco perché ho deciso di chiudere lo spaccio in montagna per tenere aperto quello del caseificio agli Scalchi.»
Agostino Mondin
Foto in alto: Barbara Crea
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