Iceberg. Come si capisce di essere una buona madre? Facile. Osservando e carpendo, soprattutto incoraggiando l’autonomia.
Quarto appuntamento con Pillole di femminile, la rubrica per riflettere su alcuni piccoli grandi temi legati alla vita di tutti i giorni.
Quando sorride gli occhi spariscono subito e, poco sotto, compaiono un paio d’incisivi bianchi e grossi. Non è bravo a stare in posa, l’espressione è quasi forzata, ma quando il sorriso è spontaneo si sente il fragore dell’allegria anche se non emette suono.
L’osservo di sottecchi mentre gioca con i suoi amici. Fino a qualche anno fa, non molti, tre o quattro, era tutto un: «Mamma, guardami!» Ora, se mi becca a guardarlo, si volta dall’altra parte quasi scocciato. Così sono costretta a spiarlo di nascosto, riparata dalle chiacchiere con le altre mamme ma con lo sguardo infilato tra le fessure delle nostre parole. Ascolto loro e osservo lui, che è più distante e non solo fisicamente, come è giusto che sia. Ride, scherza, si atteggia. Vive i suoi anni sulla soglia tra l’infanzia e l’adolescenza mentre io occupo i miei di donna adulta, che fa il genitore senza istruzioni e prega di non commettere troppi errori. Mi piace vederlo in un contesto diverso dal nostro, capire com’è quando abbraccia tutta la sua età. Com’è con gli altri, com’è con se stesso. Se è rispettoso, educato, partecipe, buono. In fin dei conti guardando lui analizzo il mio operato, è quasi un esame verso me stessa. Sono una madre capace? Gli sto insegnando l’autonomia che lo renderà individuo? E mi rendo conto che non posso saperlo perché mio figlio, come ogni figlio, è un iceberg. Vediamo solo la sommità, la parte che emerge, mentre sotto, dentro, c’è tanto altro. Montagne capovolte in continua espansione, mondi interi di pensieri, sensazioni, emozioni, domande. Me ne farà qualcuna? Si fiderà mai di me così tanto da farmi sbirciare nelle cavità della sua anima? Non lo posso sapere, posso solo fare del mio meglio e sperare che sia abbastanza.
Si sono un po’ allontanati per giocare a calcio, adesso mi arriva solo qualche schiamazzo. Vicino a loro ci sono un paio di famiglie distese sulle coperte, due poppanti paffuti e due bambini che non superano i sei anni che li guardano giocare quasi affascinati. Un paio di volte la palla li sfiora, i nostri la recuperano scusandosi. Poi il tono sostenuto che hanno sempre i ragazzini di quell’età qualsiasi cosa dicano mi fa sentire una frase.
«Raga, andiamo laggiù che non c’è nessuno» dice mio figlio, e io penso che sto facendo un buon lavoro. «Così ci allontaniamo anche dalle mamme» aggiunge poi, ridendo. Si spostano e io lo vedo da sopra mentre lui cresce di sotto, si espande, lievita. Stavolta sorrido io: sto facendo un ottimo lavoro.
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