Anche con norme specifiche, i partiti non brillano per attenzione al tema e trovano il modo di mantenere lo status quo.
Domenica 25 settembre gli italiani aventi diritto sono chiamati a esprimere il proprio voto per le elezioni politiche. La legge applicabile viene chiamata “Rosatellum” dal relatore Ettore Rosato e prevede un sistema misto tra maggioritario, con i collegi uninominali che assegnano il 61% dei seggi in ciascuna Camera, e proporzionale, legato ai collegi plurinominali determinanti per il 37% dei seggi.
La legge del 2017 – nomen omen – fissa anche i criteri delle cosiddette quote rosa in Parlamento, in quanto, per garantire parità nella rappresentanza, ogni lista o coalizione deve avere almeno il 40% di candidati di un genere.
Per i collegi uninominali i partiti che fanno parte di una coalizione presentano un candidato comune e banalmente vince chi prende più voti. I più attenti alla parità risulta essere Azione-Italia viva, con il 43,2% di candidate alla Camera e il 48,6% al Senato. Segue il centrosinistra (Partito democratico, Più Europa, Impegno civico e Alleanza Verdi-Sinistra) con il 42,5% dei candidati alla Camera e quasi il 48% per il Senato.
Nel Movimento 5 stelle le donne sono il 41,8% alla Camera e il 46,5% al Senato, mentre la coalizione di centrodestra (Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e Noi moderati) ha candidato nei collegi uninominali della Camera il 40,1% di donne, la percentuale minima, e il 46% al Senato.
Non stupisce che spostandosi da sinistra verso destra la questione femminile sia percepita in modo diverso. Un’altra considerazione utile riguarda il fatto che, se l’esito elettorale confermasse i sondaggi e vincesse il centrodestra, tale coalizione avrebbe la maggior parte dei seggi uninominali. Gli altri partiti potrebbero quindi eleggere i propri candidati dai collegi plurinominali e solo le persone in cima alla lista.
Nei collegi plurinominali ogni partito presenta la lista dei propri candidati, mantenendo un’alternanza di genere e con le stesse proporzioni, almeno in teoria. Infatti, la possibilità di candidare la stessa persona in cinque collegi differenti annacqua lo spirito della norma. È evidente che una donna capolista potrà essere eletta in un solo collegio, mentre negli altri quattro, per alternanza di lista, saranno eletti degli uomini.
Pensato a tutela del pluralismo, il provvedimento tutela i partiti più piccoli ma permette, per semplice gioco matematico, di “derogare” al principio del 40%.
È il caso di Azione-Italia Viva, che tra i capilista alla Camera e al Senato ha solo il 33% di donne o della coalizione di centrodestra che arriva con grande sforzo al 34% e solo grazie al 42% di Forza Italia che alza la media. Promossi invece il Movimento 5 stelle al 46% di capilista femminili, seguito dal centrosinistra che fa giusto il compitino, con il 41%.
Ancora lunga la strada per la parità, insomma. Anche con norme specifiche, i partiti non brillano per attenzione al tema e trovano il modo di mantenere lo status quo. Forse dovremmo far scrivere alle donne le leggi mirate a tutelarle per vedere un reale cambiamento.
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