Giorgio e il drago, un racconto di Silvia Roncucci

giorgio e il drago
Una giovane famiglia omogenitoriale. Lia, Mafalda e il bimbo che porta in grembo insieme a dubbi e speranze di vita e amore.

Dal quarto numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto, scarica il PDF della rivista o sfogliala online.

«Insomma, come ci si sente con un pisello dentro?» chiede Lia a Mafalda. Lei ride e si tocca il pancione. «Strane. Sensazione mai provata. Almeno io, invece tu…» dice, e la guarda di traverso. Lia appoggia la mano su quella di Mafalda, l’accarezza e poi la bacia. «Guarda che non mi ricordo molto… e quello che ho provato io mi sa che era diverso.» Le sue labbra si posano senza preavviso su quelle della moglie e le loro bocche ridono mentre si baciano. Mafalda dopo un po’ si scosta. «Aiutami» fa, e allunga le braccia verso di lei. Lia si alza in piedi rapida, la prende per le mani e con un «Oh issa» la solleva con cautela dal tappeto, ancora caldo dei loro corpi. La guarda riempiendosi gli occhi: tutto il resto potrebbe anche crollare subito, in questo esatto istante, e lei neanche se ne accorgerebbe. «Sai cosa faceva mia mamma quando ero bambina che mi piaceva tanto?» domanda Mafalda. Lia alza lo sguardo al cielo e storce la bocca. «No. Non lo so. Che faceva, la rompiballe?» «E dai, dalle tregua… non è facile da accettare.» «Ormai dovrebbe averlo accettato» fa Lia, e indica il pancione. «Insomma» continua Mafalda, muovendosi lenta verso la cassapanca, «ogni tanto tirava fuori delle vecchie foto e le guardavamo insieme io e lei.

«Bello. Noi però non abbiamo foto vecchie. Massimo di tre anni fa.» Lia accavalla le gambe col suo modo sgraziato e inizia ad attorcigliarsi il codino che lascia crescere lungo e sottile dietro la testa rasata. Di solito quando lo fa il suo sguardo si perde nel vuoto e finge di ascoltare, mentre invece si sta abbandonando ai pensieri più cavernosi. «Guardiamo quelle che abbiamo, su» insiste Mafalda, e fa cadere sul tavolo un pesante album di cuoio scuro con un giglio al centro. Lia si riscuote. «Lo sai che sei una delle poche persone al mondo che ancora stampa le fotografie, sì?» chiede cingendole le spalle mentre lei apre l’album. Nella prima immagine si scambiano i calici. Anche i loro genitori lo avevano fatto trent’anni prima. Solo che loro sono più belle, tutte e due in abito bianco: Lia di seta, attillato, che sottolinea le spalle da nuotatrice, il seno minuscolo e sodo, Mafalda uno con il bustino ricoperto di perle e la gonna di tulle. Quando da adolescenti le amiche le parlavano di matrimoni favolosi, Mafalda annuiva, e dentro di sé immaginava il suo, anche se aveva capito che non avrebbe mai avuto, né voluto, un principe azzurro. Suo padre l’aveva sempre chiamata “principessa”, come fanno tutti i padri pazzi delle figlie, anche quelli che non ne hanno una come lei, con gli occhi pacifici sempre un po’ bassi, la pelle sottile piena di efelidi, i capelli spumosi che porta leggermente spostati verso il viso – quelli che Lia ama sistemarle dietro l’orecchio e che Mafalda rimette subito in avanti. Nella foto strizzano le palpebre mentre avvicinano il calice alle labbra. Le persone attorno sono sfocate, il fotografo ha voluto mettere in evidenza le spose.

Ma loro si ricordano bene di come battevano le mani e gridavano le amiche lì accanto. Persino i genitori di Lia, che sapevano da sempre che un fidanzato vero non lo avrebbe mai portato a casa e avevano fatto dei grossi sospiri rassegnati quando li aveva informati che avrebbe sposato una donna. «Guarda, non c’è una foto dove tua madre non piange» dice Lia. «Era meglio quando stava zitta» aggiunge. Mafalda sbuffa divertita, ma non risponde. Quando le avevano annunciato il matrimonio – o meglio, quando era stata Lia a farlo, ché Mafalda non aveva il coraggio – sua madre si era chiusa in casa in un mutismo cocciuto, e per settimane era uscita solo per andare al cimitero. “Contro natura sono solo i pisani” recita il cartello che Lia tiene in mano in un’altra foto. Poveri pisani, ha pensato Mafalda, lei che vuol bene a tutti, o almeno ci prova. Hanno incontrato proprio delle amiche di Pisa al Pride, c’è anche Serena, con Lia si conoscono da anni e ci ha riso su pure lei. «Se prendersi in giro salverà il mondo, lo faremo» ha detto Serena. Gioca a fare la profetessa lei, la capobranco. Poi però, a pranzo, un miscuglio di birra e stanchezza ha fatto straparlare le pisane, hanno rammentato a Mafalda che Lia, da ragazza, una specie di fidanzato ce lo ha avuto. È quello l’unico pisello che conosce. «E pensare che si vede lontano un miglio che sei frocia» dice Serena. «Mentre tu: chi lo direbbe? Sembri appena saltata fuori da quella fiaba, come cazzo si chiama? Raperonzolo!» continua indicando Mafalda. Lia ripete che non le è piaciuto il sesso con un uomo, lo ha fatto solo dopo tre Vodka Lemon che neanche si ricordava chi era e dove si trovava, e lei e il tipo non si sono mai più visti. Sara guarda Mafalda e insiste che dovrebbe preoccuparsi piuttosto di tutte le donne che Lia si è portata a letto prima, durante e dopo il suo unico uomo. Ogni volta che ci pensa, Mafalda si fa rossa e silenziosa e impenetrabile e non dice niente per un bel po’. Finché Lia non la supplica di farsela passare, Cristo.

Negli ultimi scatti sono infagottate in cappotti pesanti, si abbracciano, il freddo è la scusa più comoda per stringersi ancora. Mafalda ha il naso spellato, Lia è di un bianco glaciale, si tortura il codino mentre borbotta che il gelo le blocca la circolazione cazzo, che si pente di non aver consultato il meteo perché non immaginava che lì a settembre fa[1]cesse così freddo, altrimenti avrebbe insistito per andare in Spagna. Stanno sul battello, a Copenaghen è già notte e la biblioteca dietro di loro è un grosso cubo che galleggia su un fondo scuro da cui non si distingue se non per qual[1]che lumicino dorato. «Le ferie non le avrei mai chieste se ci fosse stato da venire solo a vedere ‘sto coso» ha detto Lia davanti al Museo Thorvaldsen. L’espressione poco convinta che fa all’ingresso è eloquente. Mafalda immaginava che il Neoclassicismo non fosse proprio il suo stile preferito, però ha insistito tanto che c’era da vedere quella scultura: Ganimede, un ragazzo, l’amante di Zeus. E poi andare insieme al museo le ricorda il loro primo appuntamento, la mostra a Palazzo Strozzi; anche se la Gončarova, quella sì che le aveva messe d’accordo: grazia e forza fuse in una sola, geniale artista. Mafalda lo sa, ma sa anche che il vero motivo del viaggio lo porta dentro di sé. Tra pochi mesi avranno un maschietto. Lo chiameranno Giorgio.

«Perché vorrei un combattente» dice Mafalda tirando fuori un’ultima foto. Chissà perché non si è mai presa la briga di trovare un posto nell’album a quello scatto della loro prima vacanza insieme. Forse perché così, libero di vagabondare tra le pagine, è più facile riguardarselo quando ne ha voglia. Quanto gli era costato tre anni prima ammettere davanti ai colleghi che sì, uno di loro aveva visto bene, quella sul traghetto era proprio lei, diretta all’Elba con la tipa che portava la posta in ufficio, la «maschia» la chiamavano. Quando lo aveva saputo, i sorrisi caldi che il capo le rivolgeva chiamandola «bionda!» ogni volta che lei arrivava in ufficio erano diventati delle smorfie tirate, ma ormai Mafalda si era abituata. «Vorrei che fosse forte» continua. «’Sto Giorgio era forte?» «Ha sconfitto un drago.» «Anche noi» dice Lia. La stringe e le schiocca un bacio sulla guancia. Mafalda però sussulta. È stato Giorgio. «È Pisellino? Fammelo toccare!» fa Lia, e avvicina la mano al sesso della sua donna. Mafalda ride e si scosta. Ma subito il suo sorriso si sbiadisce. «Che c’è?» chiede Lia. «Niente. Ripensavo a mia madre. Sai cosa ha detto?» «No. Ma è meglio se non lo so.» «Ha detto che se poi ci lasciamo, come faremo con il bambino?» «Faremo come tutti gli altri che si lasciano. E poi, che cazzo ci pensi a fare? Tua madre meriterebbe una laurea con lode in rompimento di coglioni.» «E se poi cambia la legge? Se i figli delle coppie gay…» «Basta con questi “se”. Con i “se” e i “ma” saremmo sempre a vivere nelle caverne.» Mafalda si schiarisce la gola e comincia a grattarsi dietro il collo. «Lo sai che non sarà come gli altri. Lo prenderanno in giro. Sta già succedendo.» «Se le foto ti fanno questo effetto, bruciale! E non ci pensare, non è detto. E comunque: a me hanno sempre preso per il culo, eppure sono ancora viva» dice Lia e prende a torturarsi il codino. Mafalda fa un sorriso incerto. Poi guarda Lia: fissa il vuoto, muove senza pace la mano che stringe la ciocca, ormai è altrove. «Hai ragione» dice dopo un attimo di silenzio. «Non ci pensiamo.» Chiude l’album, afferra Lia per il polso e la tira a sé. «Non ci pensiamo» ripete e le rivolge uno sguardo rassicurante. Lia finalmente smette di agitarsi, le restituisce un accenno di sorriso e fa sì con la testa.

Silvia Roncucci

In alto: foto di Azamat Hatypov da Pexel

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