Il pediatra aveva spiegato il significato di quell’indice, dei parametri vitali, che quei valori significavano un probabile handicap… quando ti trovi di fronte all’inaspettato.
Dal quarto numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto, scarica il PDF della rivista o sfogliala online.
«Non puoi fare così, lo capisci? Non puoi, hai capito?» Il tono di Caterina passa dallo sconcerto alla disperazione. «Passami tua moglie, fammi parlare con lei. Passami Carmen, ti prego.»
«Carmen non ne vuole parlare.»
«Passamela. Per favore.»
«Aspetta un attimo.» Marco mette la mano a coprire il microfono e si volta verso sua moglie. Carmen fa questo gesto con le braccia, a negarsi.
«No. Non ci parlo. Non ci voglio parlare. Non ci parlo con Caterina, non parlo con nessuno, è chiaro? Butta giù. Dille di smetterla, di lasciarci perdere.»
Marco riporta la cornetta all’orecchio. «Caterina. Caterina? Te l’ho detto, mia moglie non ne vuole parlare, si scusa, ma non se la sente. Per favore, non chiamare più. Ti richiamo io, tra qualche giorno. Ti richiamo e ti dico. Ciao. Sì, ciao.»
Marco chiude la telefonata mentre Caterina, dall’altro capo del filo, sta continuando a implorare. «Aspetta, non potete fare così, ma come fai, come fate, non ci pensi…»
Eccome, se ci pensa.
Si erano conosciuti all’evento organizzato dall’associazione a fine marzo, tre giorni in un agriturismo sulle colline pistoiesi. In tutto, una decina di coppie. Con Caterina e Vittorio dei monti e Barbara e Maurizio di Bergamo avevano avuto modo di prendere un po’ più confidenza, si erano trovati seduti a tavola vicini, avevano iniziato a parlare, a conoscersi.
Con quell’aspetto un po’ rozzo, Caterina e Vittorio sembravano personaggi di altri tempi, e in effetti lo erano: allevavano mucche sull’Appennino, in un paese in Emilia, gli pareva, il nome Marco nemmeno se lo ricordava, avevano un accento che era una via di mezzo tra il toscano e l’emiliano. Caterina aveva raccontato di questo casolare, con gli animali, l’orto, il trattore che guidava Vittorio, la vita semplice e faticosa. Quella sarà la base sicura alla quale attaccarsi, diceva Caterina, quella dello psicologo inglese che le avevano fatto leggere; cioè, la base sicura sarebbe stata lei, con la sua semplicità e la sua determinazione assoluta, lei assieme a suo marito e gli animali e il trattore, forse questo era ciò che intendeva Bowlby. Forse. Per Caterina e suo marito avrebbe funzionato. E per gli altri? Per Barbara?
Anche con Barbara, Marco si era preso bene da subito: ci sono quelle persone che ti piacciono, le guardi e pensi che sì, con lei ci andrai d’accordo. La prima impressione è quella che conta, così la pensava Marco, a cambiare idea siamo sempre in tempo. Barbara lo aveva colpito, e poi c’era stata quella sera dell’esperimento, tutti bendati, al buio, una stanza grande a brancolare e toccarsi senza parlare, silenzio assoluto, sfiorarsi fino a riconoscersi, capire chi era l’altro. Marco cercava Carmen, sua moglie, era lei che doveva trovare e c’era voluto un po’, si ricordava di esser finito addosso a un paio di altri uomini, si erano subito respinti, poi era capitato accanto a Barbara, si erano come fatti delle carezze, le spalle, il viso, i fianchi, Marco aveva sentito che non era sua moglie e anche Barbara aveva capito, ma avevano indugiato un attimo, si erano abbracciati a percepire il calore dei loro corpi, il loro odore, era quello l’esperimento o no?, poi si erano allontanati prolungando il contatto, prima il corpo poi le mani, le ultime a staccarsi. La voglia che gli era venuta di fare l’amore con quella donna, sarebbe stata un’unione perfetta. Chissà se la stessa cosa l’aveva pensata anche lei. L’aveva risentita qualche tempo dopo, il due agosto alle undici di sera. Le cose erano precipitate, per caso, poco più di ventiquattro ore prima.
La cugina di Carmen aveva questo nuovo compagno, faceva il pediatra. Una volta si erano trovati, l’aveva presentato e lui si era offerto, se avete bisogno potete contattarmi. E così quando era arrivata la scheda medica del bambino, con Carmen erano andati in studio da lui per fargliela vedere. Era stata tradotta dal russo e l’aveva già controllata il medico dell’associazione. C’era questa scheda e una foto del bambino in braccio a una donna, forse un’infermiera, l’unica foto che avevano. La scheda era nient’altro che la fotocopia di un foglio scritto a penna, con alcune cancellazioni ed errori, non conteneva che qualche dato anagrafico e poi valori di analisi del sangue, peso, altezza.
Il pediatra la guardò un attimo, poi indicò col dito un punto del foglio.
«E… e questo? L’avete visto?»
«Questo quale? No, cioè, sì, l’abbiamo visto, “indice di Apgar”. Cosa sarebbe?»
Il pediatra aveva spiegato il significato di quell’indice, dei parametri vitali, che quei valori significavano un probabile handicap, magari non voleva dire niente, però continuava a guardare con attenzione la foto del bambino, diceva gli sembrava di cogliere una certa fissità nello sguardo. Carmen era rimasta pietrificata, era stata capace di dire soltanto che il dottore dell’associazione aveva avuto la scheda medica del loro bambino e aveva detto che era tutto a posto. Il pediatra allora si era alterato, e aveva chiesto chi cazzo fosse il medico che valutava un bambino con un indice di Apgar 3-4 e poi diceva che era tutto a posto. Poi aveva spiegato dei cinque parametri vitali e del voto che va da 0 a 2, dove 0 corrisponde alla morte e 2 corrisponde a un bambino sano e normale, quindi i parametri ideali sono 10 e 10, 5×2 fa 10, un bambino normale e sano deve avere un indice da 7 a 10, «a volte ci sta che il primo calcolo viene basso perché il bambino ha subìto qualche trauma durante il parto, ma poi il secondo calcolo, quello del controllo dopo cinque minuti deve essere almeno 7, e questo bambino ha 4, lo capite cosa significa 4, quell’idiota di medico ha detto che va bene?»
Poi si era accorto di essersi inalberato troppo. «Scusatemi, magari non vuol dire, magari chissà, lì in Russia usano altri criteri, o forse è apposta, non so perché, ci sarà un motivo se hanno detto che il bambino è sano, io, ecco… Scusate.» Gli aveva restituito il foglio.
Marco e Carmen si erano alzati in piedi, inebetiti, avevano chiesto se c’era qualcosa da pagare, «ma figurarsi» aveva risposto il pediatra, «ci mancherebbe. Fatemi sapere, vi prego.»
Il volo per Mosca era per il giovedì successivo, dopo sei giorni. Tornati a casa, Marco aveva chiamato subito il medico dell’associazione per le adozioni. Questi era rimasto un po’ stupito, poi aveva detto che sì, in effetti quell’Apgar così basso lo aveva visto, ma che a volte negli orfanotrofi in Russia falsificano le schede mediche così i bambini è più facile darli in adozione, «lo fanno apposta» aveva detto, «è per non avere noie con le autorità che adesso gli è presa col nazionalismo e i bambini migliori, sani, vogliono tenerli lì con loro e dare in adozione quelli meno sani, è per questo che alterano le schede.» Marco lo aveva mandato al diavolo, idiota, di’ la verità che non te ne sei accorto. Oppure peggio, lo hai visto e hai fatto finta di niente, tanto le conosci le coppie che aspettano l’adozione, non vedono altro, sono pronte e disposte a tutto, accettano qualsiasi cosa, pagano qualsiasi cifra. Poi Marco gli aveva detto che loro non sarebbero partiti, non sarebbero andati da nessuna parte fintanto che non avessero visto chiaro sulla salute del bambino. La sera stessa, verso le dieci, ricevette la chiamata del presidente dell’associazione. Era per scusarsi, «c’è stato un malinteso, sapete, è la prima volta per noi in Russia», però aggiunse che non potevano tirarsi indietro adesso, a una settimana dalla partenza. Marco gli aveva risposto che non rinunciavano, però volevano certezze.
Infine alle ventitré passate Marco aveva chiamato Barbara, per dirle che lui e Carmen avevano deciso di non partire, si sarebbero dovuti incontrare a Malpensa, volare insieme, i due bambini assegnati erano nello stesso orfanotrofio. In realtà era Marco ad avere deciso di non partire. Carmen era muta, era come avesse preso una botta in testa. «Decidi tu», aveva detto.
Anche Barbara aveva la scheda medica del bambino che gli era stato assegnato, anche loro l’avevano fatta vedere al loro pediatra, anche in quella scheda c’era qualcosa che non andava. E loro avevano già una bambina, figlia naturale.
Il giorno dopo Barbara aveva chiamato Marco in ufficio. Era sola in casa e poteva parlare. Si era messa a piangere, neanche lei voleva partire. «Io ho già mia figlia, capisci? Ho degli obblighi verso di lei, non posso rischiare di darle un fratello che ha un handicap, non posso, non voglio!» Piangeva, e diceva che tanto suo marito aveva già deciso, lui era molto credente, «se il bambino che ci hanno assegnato è così, significa che è Dio che lo vuole.» Marco aveva chiuso la telefonata dicendole soltanto «un abbraccio.» Non l’avrebbe mai più sentita.
Erano passati due mesi. Caterina e il marito erano partiti ed erano tornati con una bambina, e adesso erano contenti tutti e tre nella casa sui monti con gli animali e il trattore, Marco lo aveva saputo dal presidente dell’associazione quando era andato a riportagli tutti gli incartamenti del bambino con Apgar 3-4, quel bambino al quale mancava solo una settimana e una mamma e un papà sarebbero venuti a portarlo via da quell’orfanotrofio ai piedi degli Urali per portarlo al sole dell’Italia. Perché Marco e Carmen non erano partiti, non ne avevano fatto di niente. Troppa insicurezza, troppo dolore, troppa sfiducia. Troppa paura.
Tre anni per avere l’idoneità, le visite, i fogli, il tribunale dei minori, gli psicologi, gli assistenti sociali. I libri, Bowlby, Bettelheim e altri che non si ricordava, e poi i mobili della cameretta, i giochi regalati dai figli dei loro amici e i bigliettini di auguri, i vestiti, la biancheria.
L’ultimo atto è stato stasera, la telefonata di supplica di Caterina. Caterina che lo implora, che vuole parlare con sua moglie per vedere di convincerla, convincerli, ripensarci e partire per andare a prendere il bambino, che tutto andrà bene. Caterina con la sua determinazione semplice, la sua voglia smisurata di essere madre. Caterina, lei sì che sarà la base sicura.
Eccome se ci pensa.
Marco va verso la camera, Carmen è già a letto, dorme anche se sono da poco passate le venti e trenta. Guarda la porta della cameretta, il lettino, i giocattoli, tutto è rimasto lì, congelato.
«Eccome, se ci penso» dice a se stesso. «Ci penserò per tutta la vita.» Poi raggiunge sua moglie nel letto.
Manrico Scarpelli è nato a Livorno nel 1959. Da poco è in pensione. Scrive da sempre e dal 2007 pubblica ogni tanto qualcosa assieme ai suoi amici del laboratorio di scrittura QWERTY.
In alto: foto di 192635 da Pixabay
© RIPRODUZIONE RISERVATA