Essere madri imperfette è liberazione e stile di vita. Ecco perché ogni donna ha il diritto di non farcela e stare bene lo stesso.
Dal quarto numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto, scarica il PDF della rivista o sfogliala online.
Quando abbiamo deciso che il tema del quarto numero della rivista sarebbe stato la genitorialità, ci sono subito venute in mente due donne che fanno della maternità imperfetta ma libera il loro baluardo, nonché un vero e proprio modo di vivere (e sopravvivere). Stiamo parlando di Francesca Fiore e Sara Malnerich, alias Mammadimerda di cui nel 2022 è uscito per Feltrinelli il loro libro Non farcela come stile di vita. Una guida per diversamente performanti.
Una delle frasi che mi ha più colpito leggendo il libro è stata: «C’è solo una cosa che non siamo disposte a fare: morire rimanendo vive.» Perché molto spesso la ricerca della perfezione da parte dellә mammә, della doverosa attinenza al modello imposto da sempre, crea una frustrazione e uno scontento pesantissimi. Leggere le loro parole mi ha regalato una consapevolezza maggiore come donna e come mamma, e soprattutto mi ha aiutata a essere più indulgente verso me stessa per i traguardi o gli obiettivi, morali e materiali, che la società si aspetta io debba perseguire e che, invece, non ho raggiunto. A testimonianza di quanto mi sia stato utile il libro ci sono una ventina di post-it adesivi e una certa leggerezza d’animo che mi sento davvero di poter vivere senza sensi di colpa. Doverosa era l’intervista. Mi accoglie su zoom Francesca Fiore e, dopo i primi saluti e il ringraziamento per la meravigliosa e fondamentale lettura, cominciano le mie domande.
Non farcela come stile di vita: praticamente una guida che dovrebbe essere data in omaggio con ogni libretto di gravidanza. Com’è nata l’idea del libro?
«In passato abbiamo già scritto un libro che ci eravamo auto prodotte, che è Non sei sola. Fenomenologia della Mammadimerda e siccome siamo sempre state autrici dei nostri contenuti, scrivere questo libro è stata proprio l’evoluzione naturale del progetto. Nelle nostre pagine social abbiamo sempre usato la scrittura come veicolo, più che video o altro, quindi alla fine abbiamo capito che non si poteva più rimandare.»
Tutto il libro è un inno alla maternità imperfetta, quella che ogni donna si merita di vivere senza sensi di colpa. Perché, secondo voi, c’è ancora questa pretesa alla perfezione nonostante oggi la donna sia molto più emancipata rispetto al ristrettissimo ruolo sociale del passato?
«Perché purtroppo il cambiamento culturale non sta andando di pari passo con quello pratico. Le donne, adesso, si trovano in una fase di transizione in cui hanno ancora sulle spalle tutto quello che avevano prima, quando non lavoravano, – la casa, i figli, i genitori anziani – ma hanno anche la possibilità di lavorare come gli uomini, far carriera, studiare ecc. Quindi siamo in una fase di mezzo in cui è insostenibile tutto insieme. Stiamo svolgendo tre lavori ed è troppo, sfido chiunque a non andare fuori di testa. La provocazione che è anche nel titolo è proprio quella di smettere di fare tutto, altrimenti non cambierà mai. Perché se io continuo a adempiere a tutto quello che ci si aspetta da me, continuo a sforzarmi per arrivare a quell’asticella che viene spostata sempre più in alto, tutto rimarrà com’è. Anzi, visto che ce la fai, ti aggiungo anche qualcos’altro. Bisogna in qualche modo ammutinarsi, riscrivere le regole della nostra vita. Noi siamo sempre affannate, sempre alla rincorsa. Con questa storia del multitasking, poi, ci hanno fregato alla grande perché ci adulano, ma nel frattempo ci fregano, devi fare tutto tu. Sarebbe interessante ribaltare questa tecnica coi nostri compagni, cominciamo a adulare loro, e vedere cosa succede.»
Un pensiero inossidabile della società è quello secondo il quale una donna per essere realizzata dev’essere madre. Citando il vostro libro: «[…] La maternità non realizza il nostro essere donne. Ci scinde, invece: trascorriamo anni a rincorrerci, a tentare di tenere insieme i pezzi. Ci sentiamo in colpa, continuamente. Verso noi stesse quando ci mettiamo da parte, verso gli altri quando ci concediamo qualcosa che li esclude.» Com’è possibile distruggere tutto questo?
«Purtroppo negli esseri umani il senso di colpa è atavico, molto più nelle donne che negli uomini, e noi abbiamo questa pressione costante del dover essere ubique. Di fatto, è impossibile aderire completamente al modello, un modello che di per sé non è univoco. Le aspettative su di noi sono molto alte ma anche opposte, nel senso che ci si aspetta che facciamo ogni cosa bene. Dobbiamo essere sia madri perfette che lavoratrici perfette, per esempio. Noi cresciamo con questo concetto di dover fare tutto in modo impeccabile ed è impossibile. Se tu decidi di non lavorare per crescere i tuoi figli comunque ti senti a disagio perché c’è una parte alla quale non stai adempiendo. Proprio ieri mi scrivevano delle donne che vorrebbero stare a casa coi figli, prendersi una pausa dal lavoro, ma hanno paura del giudizio. Nel 2022 rimanere a casa, se sei una donna emancipata, crea un corto circuito perché ci si aspetta che a rimanere a casa siano solo le donne non emancipate, ma non è così. Invece se vai a lavorare, fai carriera, investi sulla tua formazione sei una mamma di merda perché sicuramente non stai preparando la torta di mele per tuo figlio, perché lo va a prendere la tata, eccetera. Quindi noi siamo in questo paradosso, comunque mai niente sarà accettato e non saremo mai in pace con noi stesse, perché qualsiasi cosa facciamo ne esclude un’altra che vorremmo fare. Alla fine l’unico modo è smettere di sentirci in colpa per quello che non stiamo facendo, essere consapevoli. La chiave di tutto è sempre la consapevolezza, fermarci un attimo e chiederci: “esattamente, perché io mi sento così?”. Poi provare anche a confrontarsi con gli uomini, che non penso si sentano così in colpa se si perdono qualcosa dei propri figli, perché loro sono settati per andare a lavorare. Quindi, allo stesso modo, dovremmo cercare anche noi di scrollarci le spalle, ma possiamo farlo unicamente da sole. Dobbiamo riuscire a ridimensionare questa sensazione perché sappiamo da che cosa origina, e non è una sensazione che sta evidenziando che facciamo male qualcosa, è semplicemente l’eco delle aspettative sociali e noi dobbiamo fregarcene. Questo è l’unico modo di distruggere il senso di colpa.»
Il carico mentale è un fardello pesantissimo, lo ricordate molto spesso. Come si fa ad alleviarlo?
«La chiave, per me, è sempre la consapevolezza. Quindi per alleviarlo bisogna saperlo comunicare, farlo emergere, perché se non viene visto nessuno si renderà conto, forse nemmeno noi, di quanto questo fardello ci stanchi. È come se avessimo una finestra aperta, nella testa, sempre, su quello che non stiamo facendo in quel momento, su quello che dobbiamo fare nel futuro e che ci consuma energia. Per far emergere il carico mentale l’unico modo è lasciare al nostro partner che, ricordiamo, ha condiviso con noi il progetto di avere una famiglia e quindi dovrebbe farsi carico della metà di questo progetto. I figli non sono solo della madre, ma nemmeno la casa è solo della donna, perché anche in assenza di figli i carichi vanno equamente distribuiti. Lasciare che i partner sperimentino la gestione di un compito dall’inizio alla fine, ovvero da quando tu pensi di fare una certa cosa fino a quando l’hai fatta. Non “vai a prendere il bambino in piscina” dopo che tu lo hai iscritto, portato alla visita medica, concordato gli orari, preparato la borsa del nuoto, svuotato la borsa del nuoto ecc. È l’unico modo. E possiamo farlo perché non è impossibile. Anche per la preparazione dei pasti, ad esempio. Non dev’essere lei che dice a lui: “prepara questo”, perché dietro c’è un universo. Essere andati a fare la spesa, sapere quali prodotti scadono prima, sapere cosa i bambini hanno mangiato ieri, cosa hanno mangiato a scuola a pranzo per fare una cosa diversa… Tutto questo, se loro non lo fanno mai, chiaramente non sapranno quanto sia dispendioso in termini di energie mentali e di tempo.»
Il pinguinismo è caposaldo nonché conditio sine qua non per riuscire a emanciparsi da mamme bene ma frustrate a mamme imperfette e, soprattutto, più felici. Ma non è sempre facile. «Stiamo cercando di cambiare i ruoli fossilizzati da centinaia di anni, serve una buona dose di indulgenza e autoindulgenza», dite, il segreto sta nel non essere così rigide. Ma come si fa ad abbattere questa inflessibilità che abbiano ereditato quasi come un retaggio e che striscia sempre sottopelle?
«Prima di tutto noi dobbiamo accettare il fatto che le persone possono fare le cose in modo diverso da noi, perché è così. Essendo un nostro potere quello di controllare, spesso vedo nelle donne la fatica di rinunciare. Ma è un potere che ci rende merito e giustizia? Io non credo. È un potere veramente secondario, tant’è che gli uomini ce lo lasciano da sempre, questo potere di decisione dentro casa. Molte grazie, molto generosi, ma non è una cosa che m’interessa, scegliere la marca di pelati non è ciò che mi appaga. Quindi è importante capire che quello è un potere fittizio, decidere di rinunciare, di dividerlo e condividerlo, e accettare anche, avendolo perso, che le cose vengano fatte in un’altra maniera.»
Il vostro libro è carico di esperienze personali che regalano sia un sorriso che un abbraccio virtuale a tutte quelle mamme che si affannano un po’. Perché, come giustamente dite, raccontare solo delle mamme bene rischia di sortire l’effetto contrario dell’empowerment, ovvero «far credere che vali solo se ce la fai, di dovertelo meritare un posto tra le altre e, – anche qui – solo se dimostri di fare tutto giusto.» Come possono le mamme fare rete tra loro per sostenersi a vicenda senza cedere alla lusinga del giudizio?
«Mi ripeto, ma la parola chiave su tutto è sempre consapevolezza. Dal momento in cui sai che quel giudizio scaturisce da una tua frustrazione, perché stai aderendo a un modello dominante, giudicante, allora a quel punto riesci a sminare questa cosa e, un momento prima di dire la cattiveria, ti fermi e non la dici. Alla fine abbiamo sbagliato tutte, si può cominciare da oggi a essere più solidali l’una con l’altra e, anziché indicare la persona che non ce la sta facendo, darle una mano. Tra l’altro è un modo intelligente di crescere i bambini perché, se noi riusciamo a fare rete, poi veramente ci si libera del tempo, i bambini sono più felici perché stanno in compagnia e volge tutto per il meglio. È necessario aprirci verso gli altri, soprattutto perché quando si crescono i figli ci si sente solissimi, generalmente, e quindi fare questo passo potrebbe essere risolutivo per noi.»
Alla fine della piacevole chiacchierata con Francesca Fiore mi sono rimaste tre cose: il sollievo di capire che le madri sono fallibili, l’importanza della consapevolezza per non cadere vittime di vecchi e stereotipati concetti di genitorialità, e quindi mettere in atto piccole rivoluzioni, e la certezza di sapere che libro regalare alla prossima amica incinta (che magari può leggere anche il futuro papà per cominciare, anche lui, a essere un padre più moderno, partecipe e portatore sano di femminismo).
Serena Pisaneschi
Foto in alto: Francesca Fiore e Sarah Malnerich
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Comunque sia, chi lavora per l’emancipazione femminile … paga un prezzo salato, tanto salato. E’ necessaria una convinzione ferma per resistere.
È una motivazione forte.
È vero, purtroppo nuota contro una corrente fortissima. Forza e determinazione sono fondamentali.