La protagonista del romanzo Paura di volare si trova di fronte a un dilemma che va molto al di là di una decisione da prendere.
Pillole di femminile, la rubrica per riflettere su alcuni piccoli grandi temi legati alla vita di tutti i giorni.
Nel 1973 Erica Jong scandalizzò il mondo della letteratura con il suo romanzo Paura di volare, divenuto famoso per la libertà sessuale della sua protagonista, Isadora Wing. Nello spezzone che vi proponiamo Isadora si trova incastrata emotivamente tra due uomini: Bennet, suo marito, e Adrian, uno psicoanalista incontrato durante un congresso a Vienna. Combattuta tra il desiderio di lasciarsi andare e seguire l’avventura con Adrian o rimanere con Bennet, nascosta dentro la sua comfort zone, Isadora fatica a trovare un equilibrio dentro se stessa.
«Ah, viaggi, avventure, storie romantiche! Scoppiavo di salute e di benessere, sfavillante, come lo sarebbe qualunque donna che fosse stata scopata quattro volte in un giorno da due uomini diversi, ma il mio cervello era un tumulto, scoppiava in una ridda di contraddizioni. Non riuscivo a venire a capo di tutte quelle contraddizioni.
In certi momenti mi sentivo coraggiosa e pensavo di aver e il pieno diritto di godere di tutti i piaceri che mi si presentavano durante la mia breve permanenza sul pianeta. Perché non avrei dovuto essere felice, edonistica? Che cosa c’era di male? Sapevo che le donne che ricevevano di più dalla vita (e dagli uomini) erano quelle che chiedevano di più, che se ti comportavi come se fossi desiderabile e preziosa, gli uomini ti trovavano desiderabile e preziosa, che se ti rifiutavi di essere uno zerbino, nessuno si puliva i piedi sopra di te. Sapevo che le donne sottomesse e servili venivano calpestate senza pietà e che le donne che si comportavano come regine venivano trattate come tali. Ma appena passava il momento di protervia venivo assalita dalla disperazione, dalla malinconia, mi sentivo terrorizzata al’idea di perdere tutti e due i miei uomini e di essere lasciata sola, mi dispiaceva per Bennet, maledicevo la mia mancanza di lealtà, mi disprezzavo profondamente per tutto quello che facevo. Poi mi veniva il desiderio di correre da Bennet e invocare il suo perdono, buttarmi ai suoi piedi, dirgli che gli avrei fatto immediatamente dodici figli (soprattutto per cementare il nostro legame), promettergli che gli avrei fatto da schiava in cambio di qualunque cosa che significasse sicurezza. Diventavo servile, nauseante, dolciastra: assumevo tutti quegli atteggiamenti pieni di falsità che di solito vengono contrabbandati con il nome di femminilità.
Il fatto era che nessuno di quegli atteggiamenti aveva senso e io lo sapevo perfettamente. Non serviva comandare come non serviva ubbidire. Non bisognava essere canaglieschi né servili. Il trabocchetto stava da tutt’e due le parti. Entrambi questi atteggiamenti portavano proprio a quella solitudine che si voleva evitare. Ma che cosa potevo fare? Odiavo me stessa, e questo odio aumentava continuamente, si alimentava da solo. Era una situazione senza via di uscita.
Continuavo a scrutare i volti nella folla alla ricerca di Adrian, Soltanto la vista del suo volto mi calmava. Tutte le altre facce mi sembravano brutte e grossolane. Bennet sapeva che cosa stava succedendo ed era insopportabilmente comprensivo.»
Serena Pisaneschi
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