All’improvviso ti mettesti seduta sul letto e dicesti a te stessa a voce alta: «Sono incinta!» Era così che lo avevi saputo.
Dal quarto numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto, scarica il PDF della rivista o sfogliala online.
No, non era sempre stato così, era cominciato a ruoli inversi: era stato lui il primo a parlare di figli e tu eri trasalita. Giulio ti aveva fatto quel discorso inaspettato, ma tu eri ancora giovane e non avevi mai pensato a te stessa in veste di madre e quello che diceva ti era sembrato semplicemente assurdo: eri sempre stata libera da impegni e responsabilità, avevi ancora tanti progetti da portare avanti, l’università primo fra tutti, e non potevi rimanere incastrata in una routine che ti avrebbe bloccata. Ma sopra ogni cosa non volevi smettere di essere la sua “piccola”. Nel momento in cui ci fosse stato un figlio, il piccolo di casa sarebbe stato un altro, le attenzioni sarebbero andate a un altro essere umano e tu non gradivi questa eventualità. Eri gelosa, sì, gelosa di un eventuale figlio.
Cosa era cambiato poi in così poco tempo? No, non è corretto, cosa fosse cambiato lo sapevi benissimo, era il come che ti sfuggiva, possibile che davvero gli ormoni avessero quel potere? No, c’era qualcosa di più profondo che spingeva per venire a galla. Era un pomeriggio di inizio estate, la luce entrava prepotente dalle finestre e, mentre facevate l’amore, avevi percepito molto chiara una sensazione di completezza. Non vi avevi dato peso, o meglio, lo avevi preso come un ennesimo segno del sentimento che provavi per lui. Era un amore che si era costruito piano piano, una specie di sfida, a causa della differenza d’età, ma anche perché tu lo avevi, senza volere ma in modo efficace, strappato a un’altra donna.
Quel pomeriggio fare l’amore era stato proprio magico, un senso di completa appartenenza ti aveva pervasa lasciandoti senza fiato. Eri felice. Lo amavi. Nonostante tutto lo amavi. Quel pomeriggio avevi sentito che fare l’amore con lui ti aveva riempito l’anima. Poco dopo poi c’era stata quella strana sera. Stavi cercando di prendere sonno ma qualcosa ti teneva in agitazione. Ti giravi e rigiravi, pensavi a Giulio, a quanto lo amavi nonostante i suoi tradimenti, pensavi che avresti dovuto reagire però, che forse quella relazione non ti stava portando da nessuna parte, che stavi perdendo tempo ed energie. Ti chiedevi quanto eri disposta a dare pur di continuare a stare con lui. Ti chiedevi se non fosse il caso di farti violenza e cominciare a pensare di lasciarlo davvero. E poi di colpo una certezza, un lampo che ti congelò i pensieri annientandoli e spegnendoli; all’improvviso ti mettesti seduta sul letto e dicesti a te stessa a voce alta: «Sono incinta!»
Era così che lo avevi saputo, molto prima del test della farmacia, dell’esame del sangue, dei sintomi, molto prima di qualsiasi cosa. Era stato lui a dirtelo: tuo figlio. E tutti i propositi di lasciare Giulio evaporarono. Il giorno dopo ti eri svegliata in un mondo rovesciato: eri incinta e volevi tuo figlio, nonostante tutto quello che avevi sostenuto quella sera a cena, nonostante tutto quello di cui eri stata convinta fino a pochi giorni prima, nonostante la routine da madre di cui avevi creduto di aver paura, nonostante il fatto che il “piccolo” di casa adesso sarebbe stato qualcun altro.
Perché c’era un punto che forse ti sfuggiva: era molto probabile che non fossi tu a volere il figlio, ma che fosse il bambino, ora, a volere te.
Pochi giorni dopo sarebbe dovuto arrivare il ciclo che mancò, poteva essere un semplice ritardo ma tu non avevi nessun dubbio. Certo, ti mancavano le conferme mediche, ma la tua anima sapeva perfettamente come stavano le cose. Attendesti il tempo necessario e andasti a comprare il test di gravidanza in farmacia.
In casa non eri sola, c’erano le coinquiline, che erano, come te, in trepida attesa. Facesti tutto con meticolosa perizia, non volevi sbagliare, volevi che non ci fossero dubbi sul risultato. Facesti passare il tempo indicato anche se le due striscioline rosa divennero subito perfettamente visibili. Guardasti le amiche con un misto di stupore, gioia e timore e fosti ricambiata da sguardi di pura allegria, non c’erano dubbi: per tutti era una notizia strepitosa.
Il lavoro di Giulio comportava lunghe trasferte quindi non attendesti che tornasse per dirglielo. Sì, nei film e nelle pubblicità sono sempre raffigurati modi molto creativi di annunciare l’evento, ma tu non eri in un film e avevi bisogno di sapere subito cosa ne pensava lui; non era un uomo facile e la reazione non era scontata.
La sua risposta fu leggera, quasi superficiale: «Beh, se è maschio lo chiameremo Andrea» al che ti concedesti di entrare in una dimensione nuova, che mai avresti immaginato di visitare. Non cominciasti a fantasticare sul futuro, questo no, ti limitavi ad assaporare il presente. Fisicamente provavi la strana, perenne sensazione di aver appena avuto un orgasmo, ti sentivi esaudita, piena, completa, in pace col mondo: piena di vita, ed era proprio il caso di dirlo; e questa sensazione ti accompagnava in ogni momento della giornata, anche quando le cose cominciarono a farsi difficili. Perché non era tutto così semplice: avevi i seni gonfi, duri e molto dolenti, tanto che di notte per dormire tenevi un reggiseno che te li comprimeva e dormivi a pancia in giù con i seni tra un braccio e l’altro, stretti in modo che non potessero muoversi, te lo ricordi? Le gambe erano di piombo. Nonostante i tuoi venticinque anni, non avevi ancora la patente, andavi sempre in giro in bicicletta, e con quelle gambe pesanti era diventata una sofferenza anche solo fare cinquanta metri. Avevi fortissime nausee durante il giorno e alla sera. Avevi sempre sonno e fare ogni cosa ti costava una fatica indicibile. Ma quella sensazione di pienezza, nonostante tutto, non ti abbandonava un attimo. Eri serena. Non avevi bisogno di nient’altro, era come se tutto quello che si può desiderare dalla vita ti fosse stato concesso in dono; non sentivi l’esigenza di null’altro, nemmeno di fare progetti per il futuro. Il futuro sarebbe venuto come naturale conseguenza del presente.
Eri in questo stato quando Giulio rientrò dal suo viaggio di lavoro e cominciaste a parlare di quello che si doveva fare. Prendeste appuntamento al consultorio che tra una cosa e l’altra era già passato un mese, un mese che per te era stato pura delizia; sentivi il bambino, lo sentivi dentro te e lo immaginavi al tuo fianco in ogni cosa facessi. La solitudine, di cui ogni essere umano non si libera veramente mai, ti aveva abbandonata; infatti non eri più sola, avevi tuo figlio, ed era una presenza quasi fisica tanto lo sentivi reale. Ti spostavi per la città e ti immaginavi sempre accompagnata da una piccola ombra allegra, saltellante al tuo fianco. Il figlio che aveva scelto proprio te per posare gli occhi su questo mondo si faceva sentire in modo così pieno e completo che tu percepivi sempre te stessa come una coppia di individui: madre e figlio, indissolubili, inestrinsecabili, ma soprattutto vivi.
Era una bella mattina di sole e non provavi nulla di diverso da come ti eri sentita ogni giorno da quando era iniziata la gravidanza: eri serena, una calma viscerale si era impadronita della tua anima e del tuo corpo e quella mattina non era diversa dalle altre. Tu e Giulio entraste nell’ascensore che dopo aver selezionato il piano prese a salire. Fu in quel momento che Giulio, senza nessun preavviso e nessuna esitazione nella voce, ti disse, inequivocabile: «Eleonora, io questo figlio non lo voglio.»
Apnea, fischi nelle orecchie, giramento di testa; la corsa in ascensore diventò interminabile, tutto prese a svolgersi come dentro uno sciroppo colloso che rallentava le percezioni e i movimenti, un lungo brivido di gelo nelle vene, sensazione di svenimento, incredulità. Le pareti dell’ascensore parevano stringersi su di te. Le fotografasti: negli anni non le avresti mai più dimenticate, la gabbia in cui ti venne rivelato l’orrore. Non lo guardasti in faccia, tenesti lo sguardo dritto innanzi a te, stavi cercando di non sprofondare nell’abisso. Cercavi un appiglio, uno spiraglio, aria da respirare, ma c’era solo l’inutile alluminio dell’ascensore. Chiudesti gli occhi, non c’era più Giulio, non c’era più l’ascensore, non c’era più l’appuntamento, c’erano solo buio e confusione, le gambe improvvisamente molli. Deglutisti e prima di avere la forza di ribattere ti ritrovasti al piano, le porte si aprirono, come un automa chiedesti dell’ostetrica dicendo che avevi appuntamento, ma non eri in te, eri un ologramma programmato: facevi quello che avresti dovuto fare, ma non sapevi più perché lo stavi facendo. Vi fecero accomodare in sala d’attesa, vi sedeste e per fortuna non doveste aspettare molto. Poi foste dentro e l’ostetrica parlava e parlava, faceva domande. Giulio rispondeva disinvolto mentre tu, la mente ovattata, rispondevi a monosillabi, per forza d’inerzia. In realtà non sentivi quello che l’ostetrica diceva, avevi ancora le orecchie che ronzavano, il buio nella testa. Avevi, soprattutto, urgente, il bisogno di piangere, un cappio ti stringeva la gola e quasi faticavi a respirare. Volevi che finisse tutto al più presto, per liberarti, urlare, magari capire. Un incubo.
La visita finì e quando foste fuori tu, per un tempo lunghissimo, non apristi bocca, ma qualcosa di caparbio si stava insinuando nella tua mente, forse avresti potuto fargli cambiare idea, discutere, comprendere e alla fine, forse, sarebbe tornato sulle sue posizioni. Seguirono giorni di interminabili discussioni, ma lui non dava segni di cedimento, non c’era modo di penetrare l’armatura di negazioni in cui Giulio si era rinchiuso.
Quando finalmente ti fu chiaro che lui non aveva nessuna intenzione di diventare padre cominciasti a peregrinare avanti e indietro dai Servizi Sociali: studiavi ancora e facevi lavori saltuari per mantenerti all’università per cui non avresti potuto crescere un figlio da sola, avresti avuto bisogno di sostegno e non sapevi a chi chiederlo visto che tua madre era senza un soldo e non eravate ricche di famiglia. Su tuo padre, disoccupato ed emarginato da sempre, era inutile fare affidamento. Non sapevi cosa inventarti, era evidente che senza Giulio non avresti potuto farcela, gli assistenti sociali ti avevano prospettato gli aiuti a cui potevi aspirare ed erano ben poca cosa, non c’era alternativa, dovevi far ragionare il padre di tuo figlio.
Un pomeriggio in auto, vicino a casa, Giulio finalmente si decise a sputare una motivazione reale, anche se decisamente poco accettabile: «Eleonora, io non mi fido di te» e l’incredibile ti apparve: proprio lui, il traditore, il fedifrago per eccellenza, l’uomo che si scopava tutte quelle per le quali provava un minimo capriccio, manifestava ora mancanza di fiducia proprio in te che gli eri sempre stata fedele a dispetto di tutto. Non capivi. Non ti capacitavi. Piuttosto che ammettere le proprie paure aveva preferito accusare te di inadeguatezza, ma tu eri fragile e ancora piuttosto giovane per non lasciarti sopraffare da quelle accuse. Dentro te quelle parole così pesanti avevano cominciato a lavorare quasi subito, non gli credevi, questo no, ma ammettevi di non essere, in quel momento, adeguata alla situazione, e del resto come pretendere che lo fossi? Eri ancora una studentessa universitaria, come avresti potuto essere totalmente autonoma?
Limpido come il sole di quella estate che ti stava accarezzando da lontano, Giulio aveva infilato il coltello nelle pieghe della tua realtà, e a te non rimase altro che arrenderti all’evidenza. C’era solo un problema: tuo figlio era con te in ogni momento e tu avresti dovuto estirparlo, ucciderlo, togliergli la vita per sempre, non sentirlo più vicino come una cosa sola, come era stato sin dall’inizio di quell’avventura. Come avresti fatto? Come avresti potuto strappare quella vita pulsante dal tuo corpo?
Le discussioni si moltiplicarono mentre il tempo passava. Prendesti appuntamento all’ospedale per l’IVG, Interruzione Volontaria di Gravidanza, ed era quel “volontaria” a crearti disappunto, non c’era niente di volontario in quello che stavi per fare; dio, se esisteva, e solo lui, sapeva quanto ti costava prendere quella decisione. Nessun altro. Quella notte dormisti a casa di Giulio perché dovevate svegliarvi presto per essere in ospedale in tempo. Arrivaste quasi in ritardo e cominciaste a salire le scale per non dover aspettare l’ascensore, notoriamente lento, del Policlinico.
Tu però decidesti di opporti fermandoti a metà salita, rifiutandoti di continuare, cercando di agire sulla compassione di Giulio: «Non ce la faccio, Giulio, per pietà, non obbligarmi a fare questa cosa!» E ti piegasti su te stessa piangendo. In quel momento eravate tu e tuo figlio, eravamo io e te, le sole cose importanti, eravamo noi due a parlare, a urlare, a piangere, era un coro non era un assolo, io volevo vivere e lo urlavo attraverso te. La scena dovette essere pietosa perché Giulio si fermò e ridiscese le scale, ma appena foste fuori dall’ospedale ti aggredì con voce velenosa. Ti diede dell’incosciente, ti paragonò a tua madre che ti aveva cresciuta da sola, ti urlò il suo disprezzo come donna e come compagna, ti gridò che da lui avresti avuto il mantenimento, ma potevi essere certa che non l’avresti mai più visto. Era feroce, disgustato da te e da me, ti avesse picchiata ci avrebbe fatto meno male. In quel momento ti detestava e la sua rabbia non aveva filtri.
Ti si spezzarono il fiato e il corpo. Riprendesti a piangere, questa volta per la durezza dell’uomo da cui credevi di essere in qualche modo amata. Ed ecco che all’improvviso, così come ero venuto, me ne andai: tuo figlio ti abbandonò.
Di colpo provasti una solitudine immensa; non eri più stata sola da quando era iniziata la gravidanza, da subito io ero sempre stato lì al tuo fianco, non ti avevo abbandonata un momento. Ora, davanti all’ospedale, dopo quelle parole così oscenamente dure, ti sentivi di nuovo sola. Qualcosa si era spezzato, forse Giulio aveva piegato la tua determinazione, forse eri tu a esserti arresa, forse eri così addolorata che non sentivi più le cose come prima, non avresti saputo spiegare cosa fosse successo, ma qualcosa era cambiato. Il bambino non lo sentivi più, non mi sentivi più, ero volatilizzato.
Una volta a casa Giulio si scusò per la propria durezza, ma ribadì le sue convinzioni, ti chiese però di non parlarne più per qualche giorno, di prendervi due o tre giorni di stacco andando al mare, per volervi bene di nuovo, senza pensare a quel pasticcio. Andaste al mare in moto. Sentisti delle lievi fitte al basso ventre ma non vi facesti caso. Non facevi caso più a nulla, eri svuotata di tutto, di emozioni, di dolore, di vita.
Al mare ti facesti un piccolo taglio alla mano che in mezza giornata si rimarginò; pensasti a come è miracoloso il corpo di una donna incinta, tuo figlio ti stava anche curando: una ferita che sarebbe rimasta aperta fino al giorno dopo si era chiusa in poco tempo. Pensasti con tenerezza a me, al tuo bambino che ti voleva bene e che non sarebbe mai nato. Cercavi di non prendertela con Giulio ma quando eri da sola in acqua non facevi che pensare a quella vita che ti portavi dentro e che l’altro genitore non voleva. Provavi per te stessa una profonda pena, una pietà silenziosa e inutile.
Tornaste a casa dopo tre giorni e subito telefonasti per prendere l’appuntamento per l’interruzione “volontaria” di gravidanza. Al Policlinico, però, non ti vollero più perché non avevano posto prima della scadenza del termine massimo; dovesti fare un sacco di telefonate negli ospedali della provincia per trovare un posto prima della fine del terzo mese.
Avevi deciso di farlo in anestesia totale, non volevi sapere nulla, non volevi essere cosciente, in qualche modo non volevi essere complice consapevole di quell’assassinio, ma quando arrivasti all’ospedale il medico ti convinse ad affrontare la cosa lucidamente per non falsare gli avvenimenti. «Una persona più è sensibile più deve sapere cosa succede davvero, per non confondere il reale con la fantasia.» E così fu, tanto ormai non avevi più la volontà di opporti a nulla.
Il medico, molto gentile, ti distraeva facendoti un sacco di domande, sulla tua vita, sui tuoi studi, sui genitori, ma poi arrivò il momento della verità: «Lo stavi perdendo, Eleonora.» Fu il dottore stesso a dire che forse il bambino aveva capito che non era il momento adatto per venire al mondo e aveva deciso di andarsene. Tu eri di un altro avviso: era stato mio padre a respingermi, fuori dall’ospedale, il giorno in cui ti aveva rovesciato addosso tutta quella cattiveria.
E quella era la fine, la fine di tutto. E giurasti a te stessa che mai più nessuno avrebbe potuto accusarti di non essere degna di fare un figlio, avresti lasciato l’università, avresti cercato un lavoro, e la prossima volta che ti fosse capitata una gravidanza nessuno avrebbe più potuto accusarti di non essere autosufficiente.
La prima pioggia di settembre si infrangeva sul vetro della sala a casa di Giulio e in quel momento realizzasti che l’estate era passata senza che tu potessi godertela a pieno, ti era scivolata sulla testa con le sue lunghe giornate calde ignorando te e le tue vicissitudini, era arrivata ed era finita senza darti il tempo di viverla. Allora ti voltasti verso di lui: «Tra noi finisce qua, Giulio.»
Non ti rimase che vivere di riflessi e immaginazioni come avevi fatto da quando eri rimasta incinta: annusare l’odore dei neonati figli di altre donne, quel buon odore di bimbo piccolo che sa un po’ di borotalco e un po’ di sudore, accudire i figli delle altre, tenerli per le manine mentre imparano a camminare a costo di spezzarti la schiena, dare consigli da zia alle amiche con figli adolescenti.
Quando qualcuna rimaneva incinta facevi mille domande, partecipavi, cercavi di immaginare, ti chiedevi come sarebbe stato il tuo di parto, se avresti avuto problemi o se sarebbe filato tutto liscio. Eri fermamente convinta che ti sarebbe piaciuto partorire in casa, come aveva fatto una tua amica svizzera, accucciata per far scivolare il bambino con meno fatica, ma ti chiedevi se alla fine avresti mai davvero avuto il coraggio di farlo o se ti saresti affidata alle rassicuranti cure dei medici di un ospedale. Il parto in acqua, il parto a casa, il cesareo, l’epidurale… Cosa avresti fatto tu?
Di quando in quando ti chiedevi quanti anni avrei avuto io se non me ne fossi andato, se non mi avessi cacciato. Perché mi avevi cacciato, questa era la verità, la tua verità, tu e Giulio mi avevate ucciso. Ti sentivi un’assassina e una volta che una persona uccide il proprio figlio allora diventa capace di tutto. Eri in grado di fare del male a chiunque, perché ne avevi fatto a chi avevi amato più di te stessa.
Sarebbe stata dura convincere le altre donne, quelle che vivono con naturalezza la maternità, che anche tu eri stata madre, anche se per poco e, a dire il vero, non ci avevi nemmeno mai provato, eri certa che nessuna avrebbe mai potuto capire.
Non ti rimaneva che continuare a vivere di domande: sarei stato maschio o femmina? Come avresti gestito la mia vita all’asilo e a scuola? Come mi avresti aiutato a diventare un piccolo umano? Mi avresti preso un animale: un cane, un gatto, un uccellino? Saresti stata in grado di gestire un animale e un figlio da sola? Saresti davvero stata in grado di crescermi da sola poi? O avevi, in fin dei conti, fatto bene a liberarti di me? Come avresti superato quella fase terribile che è l’adolescenza? Che madre saresti stata? Saresti riuscita a salvami dai pericoli del mondo marcio in cui sarei vissuto? Sarebbe bastato il tuo amore per crescermi forte e determinato? Tutti i genitori sbagliano, nonostante si impegnino al massimo per fare del loro meglio, quali sarebbero stati i tuoi di errori? Per cosa ti avrei ricordata una volta che non ci fossi più stata? Cosa, della tua lunga vita, saresti stata in grado di trasmettermi? Tutte domande che periodicamente facevano capolino nella tua testa tormentandoti senza darti la consolazione di una sola risposta. Certo, eri stata madre, ma eri stata una madre assassina, questo pensavi, e secondo te era giusto non avere risposte, era giusto che patissi quell’inferno perché non avevi avuto la forza di opporti, il coraggio di fare una scelta per la vita, ti eri lasciata sopraffare dagli eventi e avevi perso la vita. Sì, avevi perso la tua vita oltre a quella di tuo figlio. Da quel giorno eri morta e saresti stata in grado di uccidere chiunque.
Ti sbagliavi però mamma, non sei mai stata un’assassina ma una vittima, come me. Sei stata, anche se per poco, una madre fiera e generosa e io so, come nessuno può sapere, che hai fatto tutto quello che era nelle tue possibilità. Me ne sono andato, è vero, ma ho scelto io di andarmene, non sei stata tu a cacciarmi. Non c’era posto per me nel tuo mondo. Sono stato io che non ho più voluto quel padre, quella vita. Non posso rispondere alle tue domande, ai tuoi dubbi, questo no, ma posso dirti che hai sempre avuto la mia fiducia. Tu sai trovare soluzioni dove sembrano non essercene e ne avresti trovate anche per la nostra vita insieme. È stato solo per amore se me ne sono andato, non ho voluto lasciare a te la responsabilità di una scelta che avresti fatto costretta delle circostanze, una scelta troppo dolorosa, e questo dolore, mamma, non volevo tu lo vivessi.
Come tu amerai sempre me, io a mia volta sempre ti sarò grato per l’amore incondizionato con cui mi hai avvolto in quei pochi mesi. Amore di madre, niente meno. Non permettere a nessuno di dirti che non puoi capire la maternità, mamma, io e te sappiamo cosa siamo stati, non permettere altre interferenze. Ce ne sono state troppe, basta, non lasciarti più dire dagli altri chi sei. Io e te sappiamo chi sei, e nessuno mai più potrà intromettersi tra noi. Avevo scelto te perché sapevo che saresti stata la migliore, non dimenticarlo mai.
Laura Massera
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