«Il femminismo intersezionale è fatto di mille femminismi.» Con queste parole in mente, percorriamo la strada tracciata da lei.
Come sapete tuttə, il dieci di agosto ci ha lascitə Michela Murgia. Non starò qui a dire la grande ammirazione che avevo per lei nei tanti ambiti nei quali era eccezionale, ma affermo che, per me e per noi de L’Altro Femminile, è sempre stata un faro. Subito dopo la sua scomparsa è nato un movimento spontaneo che conta oltre settemilasettecento membrə: Purple Square. Il movimento si appoggia su Telegram ed è diviso in topic regionali e anche esteri. Il fermento che si legge è straordinario, tanti animi che sono mossi dal desiderio di continuare il cammino intrapreso da Michela Murgia, raccogliendone l’eredità.
Poche settimane fa Michela aveva pubblicato un video su Instagram nel quale spiegava l’importanza del femminismo intersezionale, della sorellanza più completa, quell’appoggio reciproco che è motore fondamentale della lotta. Ho deciso di riportare le sue parole perché sono e devono essere una guida per tutte, il retaggio che ci ha lasciato Michela Murgia, l’insegnamento da seguire per rendere la lotta femminista forte ed efficace. Ricordiamoci sempre che «i nemici sono altri e stanno facendo le leggi.»
«Ciao a tutte. Erano anni che volevo parlare di questo argomento, però il momento giusto forse era questo. Il tema è la brutta abitudine, molto diffusa nel mondo femminista, di certificare il femminismo altrui. È un processo fisiologico nei momenti di protesta che sono spesso difensivi perché hanno raggiunto le consapevolezze con fatica, con collaborazione spesso, e a un certo punto cedono alla tentazione dell’ortodossia. Ne hanno bisogno per proteggere le poche cose certe intorno alle quali si organizza la lotta, nella teoria e anche nelle pratiche.
Però il punto è questo: il femminismo intersezionale è fatto di mille femminismi, non di rado tra loro in contraddizione apparente, e la tentazione di ridurre tutto al proprio è forte quanto inutile. Omologare le posizioni e i metodi non aggiunge nulla a nessuna e toglie invece qualcosa a tutte. In Italia le donne che pensano femminista e hanno visibilità mediatica, chi più chi meno, sono decine. Spesso ciascuna di loro si occupa di un ambito specifico, prezioso per tutte, non tutte possiamo studiare tutto. C’è chi lavora sulla prospettiva delle sopravvissute, chi fa parte della comunità black e lotta contro il sessismo e la razializzazione. C’è chi studia il legame tra oppressione sessista e capitalismo, ambito di cui io so poco e invece ho imparato molto da loro. Chi si spoglia per affermare che il corpo nudo, scandaloso, non normato è uno spazio politico. Chi influenza milioni di persone con denunce sulla violenza che altrimenti sarebbero rimaste invisibili. Ci sono persone che scelgono di lottare per il riconoscimento di patologie che essendo delle donne non interessano a nessuno. Ci sono persone che lavorano sul sessismo nelle carceri, chi accoglie le donne in transizione, chi le difende legalmente, anche. Chi cerca nuove strade di linguaggio, criticatissima come sappiamo. Chi ha un’azienda e decide che il suo prodotto può essere anche veicolo di un discorso politico. C’è chi canta e scrive un testo che forse non andrà mai in classifica, però raccoglie un tema, porta su un’istanza, apre un discorso su terreni dove un editoriale mio magari non arriverà mai.
Sono tutti pezzi preziosissimi di un coro di contributi di cui non solo non possiamo, io non posso sicuramente fare a meno, ma che vanno protetti dalla nostra stessa tentazione di squalificare le autrici, le sorelle che magari ci stanno antipatiche, anzi senza magari, non è che tutte mi stanno simpatiche. Ma restano variazioni non selezionabili, non escludibili, della battaglia in cui deve esserci la voce di tutti. Non ho mai giocato a dare la patente di femminismo e mai lo farò. Riconosco la contraddizione di alcune posizioni, ma vedo anche che è irrisolvibile proprio perché troppo complessa è questa battaglia ed è impossibile non vi siano cortocircuiti negli atteggiamenti di chi la fa, che parte sempre e comunque da una ferita personale, questo io tendo a ricordarmelo. Nessuno diventa femminista perché non aveva altro da fare. Ricevo tanti messaggi in merito: “hai visto cosa ha scritto X, ti sembra femminista?”, “Hai visto cosa sta facendo Y con L ti sembra coerente col femminismo?” Ecco io credo siano domande sbagliate.
La lotta femminista intersezionale ha troppi incroci per non saltarne qualcuno, però questo non fa delle singole femministe delle non femministe. Ci sono donne pubbliche che non hanno studiato il tema, che non hanno il vocabolario giusto, non appartengono a comunità di elaborazione, non si sono mai confrontate, eppure in modo naif cercano di dire che certe cose le hanno capite, a modo loro. Essere ostili anche a questa categoria di donne, ben intenzionate, pasticcione anche, si chiama gatekeeping. La portineria del femminismo una cosa tristissima, è la sorveglianza della porta per capire se chi entra ed esce ha diritto ad abitare lì. Ora, non vorrei che una sola di noi perdesse il tempo prezioso che dobbiamo dedicare alla lotta per squalificare o cercare di delegittimare il lavoro di qualcun’altra. Perché c’è solo una cosa che il patriarcato ama più del vedere due donne che litigano ed è vedere due femministe che litigano. Non perdete tempo a decidere se la tale influencer, la tale giornalista o la tale artista sono più o meno coerenti con l’intero impianto dell’ortodossia, della mattonella dei femminismi dove tenete il piede voi o io. È un errore politico in questo momento non ci sarà perdonato, non ce lo possiamo permettere perché i nemici sono altri. Ripetete con me i nemici sono altri e stanno facendo le leggi. La prossima che mi scrive perché ha da parlarmi male di un’altra donna che lotta troverà una porta chiusa perché mi sono stancata. L’atteggiamento giusto è prendere il buono, relativizzare il resto e ripetersi sempre: i nemici sono altri e stanno facendo le leggi.»
Per sempre grazie, Michela, adesso ci pensiamo noi.
Serena Pisaneschi
Foto in alto: Michela Murgia
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