Viola Ardone non delude mai: una nuova grande storia raccontata con il cuore e con una penna magnifica che insieme regalano emozioni.
Lo scorso settembre è uscito in libreria il nuovo romanzo di Viola Ardone, Grande meraviglia, edito da Einaudi. L’autrice in passato ci ha abituati a grandi storie, e questa non è da meno. Attraverso gli occhi e il cuore della gente comune racconta eventi che hanno modificato la società, portato innovazione, fatto progredire il sentire comune verso un respiro più ampio e una consapevolezza che comprende l’altro, oltre che l’io.
Il libro inizia come un lungo monologo. A parlare è Elba, una ragazzina nata e cresciuta in un manicomio, il Fascione di Napoli. Ma questa non è solo la sua storia, è anche quella del Dottor Meraviglia che si è formato sotto l’egida del Professor Basaglia. È la storia della sua mutti (madre in tedesco) che l’ha chiamata come un fiume della Germania, la patria che aveva lasciato a causa della guerra, e che è stata fatta internare dal marito italiano perché «disubbidiente, altezzosa, erotica, mendace, di immoralità costituzionale, adultera, con istinti morali corrotti».
È la storia di «Tambaro Giuseppina, di anni 45, indocile; De Caro Assunta, di anni 27, stravagante; De Lella Silvana, di anni 32, collerica; Antonelli Enrica, di anni 14, pericolosa per sé e per gli altri; Zaccaria Loredana, di anni 39, senso dell’onore poco sviluppato; Rumma Anna, di anni 48, madre snaturata.»
Tutte internate dal padre, dal marito, dal fratello perché considerate scomode. O solo per liberarsene.
La voce del racconto si sdoppia, alternando quella di Elba a quella di Fausto, il Dottor Meraviglia, mostrando l’evento storico della chiusura dei manicomi dal punto di vista degli internati e da quello di medici e operatori. Per quanto possa sembrare strano da entrambe le parti ci furono i favorevoli e i contrari, ma gli eventi non si possono arrestare ed ognuno, con il tempo, trova il proprio posto nella nuova vita. Oppure no. Perché non è sempre facile andare avanti, perché gli abusi subiti, l’elettroshock e la routine della prigionia lasciano segni indelebili che non tutti sono in grado di superare.
«Lo sapevi che alcune arrivavano qua perché erano considerate stravaganti, perché non erano capaci di badare alla casa, al marito e ai figli, perché si comportavano come maschi e volevano amare una donna. Anche questa è pazzia?»
Dolce e crudo allo stesso tempo, a tratti disturbante o consolatorio: ancora una volta Viola Ardone rende palpabile un pezzo della nostra storia italiana al quale non facciamo più caso, restituendo visibilità e dignità a quelle donne la cui vita è stata spezzata per un capriccio, un fastidio o solo per noia da chi ne esercitava indebitamente la potestà.
Erna Corsi
Foto in alto: repubblica.it
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