Un racconto di Franco Zanella. Bella lo era sempre stata anche quando non voleva esserlo: era sempre stata oggetto di sguardi insistenti e di malcelate invidie.
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Stava seduta nel corridoio con un braccio dolorante, un ematoma sotto l’occhio destro e lo sguardo assente.
Le avevano detto che non era in arresto, non per il momento almeno. Le avevano detto di aspettare lì, che sarebbero arrivate comunicazioni dall’ospedale.
Uscendo trafelato dall’ufficio dell’ispettore, un agente non riuscì a evitare di notarla e di squadrarla con uno sguardo veloce ma invadente. Lei se ne accorse e, abituata, girò semplicemente la testa.
Infatti era bella anche quella sera nonostante il livido, le occhiaie e quel giaccone infilato in fretta sopra la tuta.
Bella lo era sempre stata anche quando non voleva esserlo. Pur non amando i vestiti appariscenti o il trucco vistoso era sempre stata oggetto di sguardi insistenti e di malcelate invidie.
Non aveva qualcosa di particolare che risaltasse ma quell’insieme di capelli rosso rame, occhi trasparenti, labbra delineate e una nuvola di lentiggini, assieme a un portamento elegante e leggero, le davano un fascino che non passava mai inosservato. La bellezza le aveva influenzato la vita fin dalle elementari quando alle recite la mettevano sempre in prima fila.
E poi alle medie, alle prime festine, quando i compagni più spavaldi facevano a gara per ballare i lenti con lei. E alla fine le toccava perché, ogni volta che avvicinava il ragazzino timido e un po’ secchione che le piaceva, questi diventava rosso come un pomodoro e non riusciva più a dire una parola.
Ed era bella al liceo quando si ritrovò circondata dalle compagne di classe che cercavano la sua amicizia per essere ammesse alla cerchia dei ragazzi-bene in cui lei si era trovata immediatamente inclusa anche se veniva da una famiglia di periferia.
Ed era bella sul pullman di ritorno dalla gita di quinta, quando tra scherzi e battute si infilò in uno dei sedili in fondo con il ragazzo più ricco e ambito della classe e, mentre tutto intorno i compagni cantavano e ridevano, dal quel sedile uscivano solo risatine e sospiri.
Alla maturità era così bella che un commissario esterno pieno di sé le riservò un trattamento di favore che la fece sentire perfino in imbarazzo e, quando sul tabellone uscì il suo 100, si scocciò non poco nel sentire le insinuazioni di chi diceva che gliel’avevano regalato. Il ragazzo del pullman sembrava proprio innamorato e diventarono presto una delle coppie più ammirate.
Le piaceva molto passare da una festa all’altra e non si preoccupava se a volte aveva la sensazione di essere più esibita che accompagnata. Circondato dall’orgoglio dei suoi genitori, il suo viso risplendeva di bellezza e soddisfazione il giorno del 110 e lode in chimica e non fece caso ai sorrisi di circostanza della famiglia del fidanzato.
E naturalmente era meravigliosa il giorno del matrimonio quando la vivacità dei suoi capelli rossi e la luminosità dei suoi occhi verdi resero superfluo lo sfarzo organizzato dalla famiglia di lui.
Nemmeno i primi anni di matrimonio intaccarono la sua bellezza anche se faticava ad inserirsi in una famiglia che la considerava poco più di una fortunata cenerentola e, in mancanza di figli, ci volle solo qualche anno in più perché cominciassero a trattarla apertamente come un’estranea e un’inetta mentre il marito si rifugiava in comportamenti da ragazzino viziato e la lasciava sola ad affrontare l’ostilità.
E, nonostante il capo chino e gli occhi spenti, era bellissima anche mentre il giudice leggeva la sentenza di divorzio. Rimase bella anche nei mesi successivi mentre per ricostruirsi una vita sociale iniziò a cercare lavoro e a frequentare corsi serali. In cerca di compagnia adottò anche una piccola barboncina bianca a cui si affezionò immediatamente.
La sua bellezza risplendeva ogni volta che trovava lavoro come hostess di fiera o commessa di temporary shop ma anche ogni volta che non la prendevano sul serio quando si proponeva come analista o tecnico di laboratorio.
Era bellissima anche la sera che conobbe quell’uomo così colto, gentile e affascinate da sembrare un miracolo. E, quando usciva con lui per andare al cinema, al ristorante o anche solo a passeggiare, diventava ancora più bella. E, quando li accompagnava, la barboncina assumeva un passo fiero e carico d’orgoglio per la sua padrona.
Rimase bella anche dopo le prime scenate di gelosia quando sul suo viso apparvero le prime ombre di dubbio e di preoccupazione. E nemmeno i primi lividi la resero meno bella.
Ed era ugualmente bella tutte le volte che lui le chiedeva scusa e piangeva e si pentiva per poi ricominciare con nuove escandescenze.
Era bella anche la sera che lo lasciò, mentre l’espressione dell’uomo passava dall’incredulità, all’offesa e al rancore, e la sua bocca la investiva con una serie di insulti e minacce.
E, se avesse potuto parlare, la barboncina l’avrebbe detto a tutti che era bella anche quando il telefono la svegliava nel cuore della notte e lei rispondeva ad un silenzio che faceva da sfondo ad un respiro pesante. Oppure quando la mattina si alzava e trovava dieci o più chiamate non risposte sul telefono messo in modalità silenziosa.
E, nonostante la vecchia tuta da casa, un accenno di occhiaie e la preoccupazione per una piccola famiglia di topi che si era stabilita nella sua cantina, lei era bella anche la sera che, aprendo la porta, se lo vide davanti elegante come non mai con una faccia da bambino pentito e un mazzo di rose così grande da far venire voglia di credergli.
Così si ritrovarono davanti a un caffè a dirsi frasi banali finché una parola sbagliata riaccese la gelosia e diede il via ad una sfuriata che finì con botte e strattoni. Ne fece le spese anche la barboncina che era coraggiosamente intervenuta in difesa della padrona mostrando i dentini: una pedata rabbiosa la fece volare ai piedi dell’attaccapanni dove si accasciò e rimase immobile per qualche istante.
La donna cacciò un grido e si precipitò sul corpicino dell’animale che gemeva ma che, appena sentì l’odore della padrona, sollevò la testa e iniziò a leccarle la mano come se la dispensatrice di cure fosse lei. La prese in braccio, si alzò e passando davanti all’uomo, ora fermo e in evidente imbarazzo, andò in bagno per risistemare sé stessa e l’animale.
Uscì con quel batuffolo di pelo ancora stretto tra le braccia e, con un tono di voce asettico, lo invitò a fare lo stesso. Lui la ritrovò in cucina con due nuovi caffè e le si sedette di fronte con uno sguardo tra il pentito e l’incantato. Lei era bellissima mentre lui iniziava ad irrigidirsi, si portava le braccia all’addome, inarcava la schiena e cadeva dalla sedia senza vita.
Allora si alzò, risciacquò la tazzina e la rimise sul piattino. Andando a prendere il telefono passò davanti allo specchio e si vide bella nonostante il livido che le si stava formando sotto l’occhio destro. L’ambulanza arrivò dopo pochi minuti. La dottoressa esaminò il cadavere e vide le tazzine sul tavolo.
Lei, occhiaie un po’ più marcate, volto tumefatto ed espressione assente, non riuscì a dire cosa era successo né a giustificare il livido.
La dottoressa chiamò la polizia. Gli agenti la trovarono seduta, ferma in un angolo e si scontrarono con lo stesso silenzio. Si mosse solo quando le dissero che doveva seguirli in questura e prima di uscire si infilò un giaccone sopra la tuta. Fu in quel momento che la dottoressa fece caso al contrasto con l’eleganza dell’uomo, notò il mazzo di rose e ripensò alle occhiaie e al livido.
L’ispettore la convocò nel suo ufficio dopo quasi tre ore. Alzò gli occhi e fissò lo sguardo su di lei per qualche istante per tornare poi ad abbassare la testa sulle carte che aveva davanti.
«Signorina» le disse «la dottoressa del Pronto Soccorso ha certificato che la vittima è deceduta per infarto del miocardio e non c’è nessuna necessità di procedere con l’autopsia. Io non ho pertanto più alcuna ragione per trattenerla.» Seguirono stesura del verbale, timbri, firme e due agenti che la riaccompagnarono al suo domicilio.
Appena la pattuglia ripartì nonostante l’ora portò fuori la spazzatura. Nel sacco c’era un piccolo barattolo con sopra un musino baffuto ma a nessuno sarebbe più interessato. Si fece una lunga doccia, si mise un pigiama caldo e andò a letto. Quella notte per la prima volta chiuse gli occhi e non si sentì bella, si sentì leggera.
In alto: Elaborazione grafica di Erna Corsi
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