L’Istituto europeo per la parità di genere calcola che, in Italia, al ritmo attuale ci vorranno sessant’anni per una reale parità.
Dal quinto numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto, scarica il PDF della rivista o sfogliala online.
Uno degli indicatori più accreditati per valutare il grado di progresso ed equità di un Paese riguarda la percentuale di donne nel mondo del lavoro. Una questione prima di tutto culturale, in quanto resistono approcci molto conservatori che impediscono o quantomeno complicano l’accesso delle donne all’occupazione, un modo tra i tanti di tenerle al loro posto e controllarle.
Da un’indagine ONU su un centinaio di Paesi in tutto il mondo emerge una divisione netta tra nazioni in cui l’80% degli intervistati crede che «donne e uomini hanno le stesse opportunità e gli stessi diritti» e altre in cui oltre il 50% pensa che «le donne devono obbedire al padre o al marito». Verrebbe da pensare che si tratti di Paesi a reddito basso, arretrati e succubi di dogmi religiosi e, in effetti, parliamo di sudest asiatico e mondo arabo, principalmente.
La situazione in Europa
È però sorprendente notare come nella nostra stessa Europa siano presenti differenze notevoli. Secondo i dati di Eurostat, tra il 2005 e il 2022 il differenziale tra uomini e donne occupati si è ridotto, passando da 16 a 10 punti percentuali; il tasso di crescita delle donne impiegate è stato del 9%, contro un aumento per gli uomini del 4% e gli aumenti più rilevanti si sono verificati proprio nei Paesi storicamente più restii, che partivano da più lontano (Bulgaria e Polonia segnano un +14% e Malta addirittura un +34%). Il tasso di occupazione femminile più elevato si registra in Svezia (80%) e il più basso in Grecia (51%).
A casa nostra
La nostra Italia finisce penultima con il 51,4% di donne attive professionalmente e con un gap di genere di 18 punti, quasi il doppio della media europea. Osserviamo la questione anche dal lato opposto: la disoccupazione femminile è al 9,2% e tra le giovani under 24 al 32,8%; per gli uomini si registrano un 6,8% assoluto e un 27,7% tra i ragazzi.
La Commissione europea
Ursula von der Leyen, la prima donna al vertice della Commissione europea, ha tentato di affrontare il tema sia con le azioni che con la legge. Per prima cosa in Commissione ha voluto equamente rappresentati uomini e donne; ha poi sostenuto due proposte distinte: la direttiva sulla Work-Life Balance, che introduce gli standard minimi per i permessi famigliari e promuove responsabilità condivise tra i genitori, e la direttiva Equal Pay, che mira a garantire trasparenza e il diritto alla stessa retribuzione per uomini e donne a parità di impiego.
Verso una reale parità
La politica europea si inserisce nella più ampia tematica della parità di genere e questo finisce incredibilmente per limitarne l’efficacia, scontrandosi contro le resistenze dei Paesi allergici alla parola “genere”. Se alcuni Stati membri hanno accolto le direttive o hanno in programma di farlo, altri sono esplicitamente contrari. E anche tra gli Stati virtuosi, non esiste un approccio standardizzato con il risultato di avere normative poco coerenti tra loro. L’Istituto europeo per la parità di genere ha calcolato che al ritmo del progresso attuale ci vorranno sessant’anni per raggiungere una reale parità. Ci consola un pochino pensare che al Nord America ne serviranno ben centocinquantuno.
Il gap salariale
Qualche miglioramento si è avuto anche per l’altro gap famoso, quello sui salari. Le nuove politiche introdotte da molti governi, la migliorata trasparenza e la forza acquisita dalle donne dei Paesi svantaggiati nel combattere per condizioni più eque hanno portato a una riduzione del gap, anche se permangono forti differenze tra settore pubblico, tipicamente più trasparente, e privato. Il divario medio europeo è così passato dal 16,4% del 2012 al 12,7% del 2021.
L’Italia appare a prima vista uno degli Stati più virtuosi, con un salary gap medio del 5% (era il 6,5% dieci anni fa) anche se nel privato si arriva al 15,5%. Il nostro Paese mostra il quinto valore più basso in Europa: vince il Lussemburgo, che ha addirittura un gap negativo e le donne vengono retribuite lo 0,2% in più degli uomini; ultima l’Estonia, con un differenziale del 20,5%, seguita a distanza di un paio di punti da Austria e Germania. Va però detto che il salary gap viene calcolato come dato “grezzo”, una pura differenza tra la media della retribuzione oraria che va letta in relazione al tessuto socio-economico e sconta di suo alcuni limiti oggettivi.
Non tiene conto, ad esempio, del grado di istruzione del dipendente, del ruolo svolto o dell’anzianità. Raccoglie i dati di una ricerca di mercato rivolta alle imprese più grandi, a cui quelle individuali o con meno di dieci dipendenti non sono nemmeno invitate. Chiaro che questo possa alterare il valore medio in Italia, dove quasi la metà dei lavoratori è impiegata in una micro azienda.
I limiti delle percentuali
Altro elemento che potrebbe stravolgere il risultato riguarda i settori economici prevalenti in un certo Paese, in quanto una preminenza del terziario è associata a un gap più ampio (intorno al 24% in Italia), mentre nei settori a reddito inferiore le distanze si accorciano. Un esempio illuminante sulla difficoltà di interpretare un valore medio grezzo riguarda il settore minerario, dove le donne italiane vengono retribuite il 5,2% in più degli uomini: è evidente che il risultato è frutto di una maggior presenza di donne nei ruoli apicali, rispetto alla manovalanza tipicamente maschile. Numero quindi significativo ma attenzione a non lasciarsi abbindolare.
Madri lavoratrici e uomini al lavoro
Interrogati da Ipsos sulle possibili motivazioni del salary gap, circa la metà degli intervistati ritiene che le donne vengano impiegate in settori a paga inferiore e che subiscano una discriminazione nell’ambiente di lavoro; il 26% ritiene sia frutto di scelte per bilanciare la vita familiare con il lavoro. In effetti, quando una coppia ha un figlio, la donna diventa una madre lavoratrice, mentre per il padre non si usa questa definizione.
E il linguaggio rivela un retaggio culturale per cui una donna si identifica prima come madre e poi, eventualmente, nella carriera. Il modello prevalente in Europa è quello definito “uno e mezzo”, in cui uno dei genitori riduce il proprio orario di lavoro per accudire i figli. Lo fanno sempre loro: oltre un terzo (media europea) delle donne ha cambiato in modo significativo orario e/o mansioni dopo un figlio, contro un misero 6,4% dei neo papà. Con tutte le conseguenze in termini di stipendio, possibilità di avanzamento o carriera e ovviamente di pensione.
Una buona strada, ancora tutta da percorrere per la parità di genere
Il Gender Policies Report 2022 pubblicato dall’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche evidenzia il permanere di caratteristiche strutturali nel mondo del lavoro italiano che limitano la partecipazione femminile e relegano le donne a orari ridotti, occupazione precaria o in settori a minor redditività. La situazione delle donne lavoratrici in Italia appare quindi positiva in termini assoluti, ma ancora lontana da mostrare miglioramenti effettivi sotto l’aspetto della qualità di occupazione e retribuzione. Ancor meno in termini di qualità della vita e di parità di genere.
Barbara Salazer
In alto: foto di Cottonbro Studio
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