Il peso della colpa, di Serena Pisaneschi. La realtà in una storia

colpa
I riferimenti a procedure, giudizi e attribuzione della colpa non sono né inventati né puramente casuali, basta solo cambiare contesto.

La stanchezza cominciava a farsi sentire, quella mentale più di quella fisica. Erano passate più di tre ore e, dopo essere rimbalzato da un ufficio all’altro, da una persona all’altra, Giacomo cominciava a spazientirsi.

L’avevano lasciato solo in quella stanza semibuia, la porta chiusa non riusciva a ovattare del tutto il chiacchiericcio che proveniva dal resto della stazione di polizia. Era come un rumore concitato di gente che aveva cose da fare, da organizzare, da sbrigare, ovunque tranne che lì con lui, però.

Finalmente la maniglia si abbassò e tutto il frastuono entrò insieme a due figure, per poi tornare a essere confinato nei corridoi fuori di lì. Erano un uomo e una donna, non li aveva mai visti. «Bene, mi toccherà ripetere tutto da capo. Di nuovo. Per la quarta volta» pensò Giacomo, trattenendo uno sbuffo di scoramento.

Si sedettero di fronte a lui. La donna era carina, sulla mezza età, un po’ troppo magra, tette piccole ma belle mani. L’uomo tarchiato e con un ridicolo riporto sul capo. Giacomo se lo immaginò sotto la doccia, con un ciuffo di capelli lungo venti centimetri che gli penzolava dal lato destro del viso. Inorridito, tornò a guardare le tette della poliziotta.

«Ci scusi l’attesa» cominciò proprio lei, «è una notte movimentata.»

«Io ho già detto tutto ai vostri colleghi, voglio solo sporgere denuncia e andarmene via» si lamentò Giacomo, spazientito.

«Siamo qui per questo, infatti» lo tranquillizzò l’uomo col riporto, piazzando il cellulare acceso sul tavolo in mezzo a loro. «Dobbiamo registrare, sono le procedure.»

«Allora, Giacomo, ci racconti cos’è successo» lo invitò la poliziotta.

«Come ho già detto, stavo andando alla macchina parcheggiata vicino al pub.»

«Quale pub?» chiese il poliziotto.

«Ha importanza?»

«Va messo nel verbale.»

«Il Foxtrott.»

«E dov’é?»

«A est, vicino alla zona industriale» disse la collega.

«Ah, capito, è zonaccia quella» osservò il poliziotto.

«Certo non la migliore per andarsene a spasso da soli alle due di notte.»

«Stavo andando alla macchina» ripeté Giacomo, sentendo insieme il bisogno e il fastidio di doversi giustificare.

«Aveva bevuto?»

«Un paio di birre.»

«Non poteva accompagnarla nessuno alla macchina?»

«Non aveva senso, erano due passi. I miei amici hanno continuato la serata, io sono venuto via prima perché la mattina dovevo lavorare» disse. «Anzi, fra poco più di un’ora dovrei essere in negozio, tra l’altro.»

«Ci sbrigheremo» gli assicurò il poliziotto, poi continuò: «Come definirebbe il suo stato? Era lucido, un po’ alterato, ubriaco?»

«Ubriaco?» alzò la voce Giacomo. «Per l’amor di Dio, ho bevuto due birre!»

«Basta pochissimo alcol per perdere lucidità, soprattutto se non si è abituati» intervenne ferma la poliziotta.

«No, non ero ubriaco» scandì Giacomo sporgendosi verso la donna, che segnò qualcosa sul blocco notes che si era portata appresso.

«Dunque era nella periferia est, erano le due di notte ed era appena uscito a un pub dopo aver bevuto due birre» ricapitolò il poliziotto.

«Sì, esatto» Giacomo tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia.

«Quando si è accorto che la stavano seguendo?»

«Non subito, dopo un po’.»

«Non aveva fatto attenzione? Insomma, la zona è malfamata, aggirarsi da solo in certi vicoli deserti e poco illuminati non è una cosa molto furba.»

«Stavo andando alla macchina distante un centinaio di metri, perché avrei dovuto stare attento? Parcheggio sempre nello stesso posto.»

«Sa com’è, non si è mai totalmente sicuri, non si può sapere chi gira per le strade di notte, specialmente in certe zone» intervenne la poliziotta. «Bisognerebbe sempre evitare di mettersi in situazioni di pericolo, di esporsi come preda.»

«Preda?» domandò Giacomo, aggrottando le sopracciglia e scattando in avanti. Cominciò a pensare che quella deposizione stava diventano molto simile a un interrogatorio e si indispettì.

La poliziotta gli lanciò un’occhiata dura e scrisse ancora qualcosa sul notes. Il suo collega, intanto, aveva infilato il dito indice nel mezzo dell’attaccatura del riporto e grattava con vigore. Quando tolse il dito un piccolo grumo di capelli, sette o otto, a contarli, erano riusciti a scappare dalla morsa della lacca intrappolando qualche scaglia di forfora. Giacomo incollò gli occhi al grumo come ipnotizzato.

«Indossava quei vestiti, giusto?» riprese il poliziotto.

«Come?» Si ridestò Giacomo.

«Era vestito come adesso al momento dell’aggressione?»

«Certo.»

«Può alzarsi?» gli chiese lei.

«Perché?»

«Va messo a verbale.»

«Cosa?»

«Com’era vestito, va messo a verbale» precisò il poliziotto.

Giacomo esitò un momento, poi poggio le mani aperte sul tavolo, fece forza e distese la gambe spingendo indietro la sedia, producendo uno stridio fastidioso.

«Si metta qui» gli fu indicato un punto preciso a fianco del tavolo.

Gli agenti lo squadrarono dall’alto in basso un paio di volte, lei sporgendosi dietro il collega per avere la visuale libera. Scarpe eleganti, pantaloni neri con la piega, camicia col colletto coreano e il ricamo TH di blu e rosso, blazer doppiopetto con lo stesso ricamo sul taschino. La donna tornò a scrivere.

«Può sedersi» gli disse il poliziotto, ancora con l’onda intirizzita di capelli fuori posto. «Indossava altro? Gioielli, orologi…»

«Sì, quelli me li hanno rubati insieme al telefono, al portafoglio e alle chiavi della macchina.»

«Quali gioielli?»

«Due bracciali, una collanina e un orologio.»

«Può essere più preciso?»

«Cioè?»

«Le marche.»

«I bracciali erano Brosway, la collanina Hugo Boss e l’orologio Maserati.»

«Di grande valore?»

«Beh sì, l’orologio e la collanina specialmente.»

«Il cellulare che modello era?»

«Un Samsung Galaxy Flip 5.»

«E il portafoglio cosa conteneva?» continuò il poliziotto.

«I documenti, le carte e i contanti.»

«Quanti contanti?»

«Circa centoventi euro.»

«E la macchina? Che macchina ha?»

«Una BMW serie 4» rispose in automatico Giacomo, «ma ho già detto tutto prima.»

«È per il…»

«Verbale?» l’interruppe Giacomo. Il poliziotto gli lanciò uno sguardo affilato, poi continuò.

«L’aggressore era più corpulento di lei? Era armato?»

«Alto come me ma più esile e aveva un coltello, sì»

«Grande quanto?»

«Tipo grande così, di quelli a serramanico» e allontanò indice e pollice della mano destra ma senza raggiungere la massima estensione.

«E non si è difeso? Non ha urlato? Non ha chiesto aiuto?»

Giacomo scosse il capo. «No, mi sono come pietrificato…» ammise a mezza voce, vergognandosi un po’.

«Quindi nessuna reazione. L’aggressore è stato quasi agevolato, ha avuto vita facile» sentenziò il poliziotto.

Giacomo chinò la testa messo di fronte alla sua debolezza. Certo, a pensarci adesso avrebbe potuto reagire in molti modi, ma in quell’attimo era stato colto dal panico e dalla paura, non aveva saputo far altro che obbedire.

«Comunque ho già detto tutto ai vostri colleghi più di un’ora fa, perché me lo state richiedendo? A cosa serve?» si riprese poi, stufo di quell’accanirsi nei suoi confronti.

«Per stabilire il movente e le attenuanti» gli rispose la donna, che non aveva smesso un attimo di scrivere. Poi alzò gli occhi e glieli puntò addosso.

«Che movente? Che attenuanti?»

«Della rapina» gli disse lei. «Vede, Giacomo, il nostro lavoro consiste senza dubbio nel catturare i colpevoli, ma allo stesso modo dobbiamo anche appurare il dolo di chi ha subito il furto.»

«Il dolo?» quasi urlò Giacomo, che era stanco di tutta quella pagliacciata, compreso il sentirsi chiamare per nome come se fosse un ragazzotto qualsiasi. «Ma quale dolo? Io sono stato derubato!»

«E l’istigazione a delinquere dove me la metti, Giacomo?» gli chiese il poliziotto, passato al tu senza riguardo.

«Se vai in giro a provocare cosa pretendi?» aggiunse la collega sporgendosi sul tavolo, anche lei impossessandosi di una confidenza mai domandata. «Di sicuro qualcuno ti ha puntato nel locale, con tutte le tue ostentazioni di beni di lusso. Il telefono ultimo modello, i vestiti firmati, l’orologio da centinaia di euro, la macchina sportiva, e poi ti ha seguito e rapinato. Non c’era da aspettarsi molto di diverso.»

Giacomo rimase senza parole. Non capiva come potessero anche solo pensare di incolpare lui. Si era trovato aggredito alle due di notte, in mezzo a una strada deserta. Era la vittima, lui, non il colpevole.

La poliziotta riprese a scrivere sul suo blocco notes, impettita e dritta come una verità che non vuol sentire ragioni. Il poliziotto invece lo guardava con un’aria tra il rassegnato e il consapevole, come si guarda qualcuno che non sa di avere dei limiti cognitivi.

«Noi faremo tutto il possibile per arrestare il colpevole, ovviamente, è nostro compito» riprese con un tono di voce quasi paterno, «ma devi capire che se vai in giro a urlare “io sono ricco” è normale che prima o poi qualcuno ti rapina.»

«Come quelli che abitano nelle villone, no? Se sfoggi tanta roba chi ti entra in casa lo trovi. Se ti va bene lo fa quando non ci sei, altrimenti può scapparci anche il morto» continuò la collega.

Giacomo rimase senza parole, gli sembrava di vivere in una dimensione parallela. In uno di quei film assurdi, distopici, in cui succedono cose senza senso ma che, in realtà, li dentro hanno una loro logica. Non sapeva cosa dire, cosa pensare, perché lui di logico, invece, non ci vedeva niente. Mai, prima di quella notte, aveva sperato così intensamente di stare vivendo un incubo. L’aggressione, la paura, l’impotenza, tutte cose che aveva provato ma che di certo non aveva cercato. Gli veniva addossato il peso di una colpa che non era la sua. Gli veniva attribuita una responsabilità appiccicosa, inscalfibile, quasi come la lacca sul riporto del poliziotto, con la differenza che a lui non sarebbero bastati numerosi shampoo per togliersela di dosso. Si sentì mortificato e inerme.

«Se non hai altro da aggiungere stiliamo il verbale, puoi tornare a fine mattinata, qualcuno te lo farà firmare» gli disse l’uomo, sempre col grumo di capelli sul capo.

Giacomo alzò lentamente gli occhi, lo guardò e annuì. In automatico poi portò occhi e mano destra sul polo sinistro, poi si ricordò che era rimasto spoglio.

«Che ore sono?» chiese.

«Quasi le sette» gli rispose la poliziotta.

«Se non c’è altro andrei, allora. Devo passare da casa a cambiarmi e poi andare al lavoro» disse, ancora con il posino della camicia tra le dita.

«Non c’è altro, puoi andare» gli disse lei, facendo scattare rumorosamente lo stantuffo della penna.

Giacomo si alzò con lentezza, affaticato dalla notte insonne e insensata. Fu accompagnato all’uscita e salutato con una stretta di mano vigorosa (della poliziotta) e una loffia (del suo collega); ebbe la sensazione che non li avrebbe mai più visti né sentiti.

Il sole era sorto da un po’, la luce gli punse le pupille. Un soffio di vento gli fece tirare su il bavero della giacca, ma il brivido alla schiena non venne dall’aria fresca delle prime ore di luce, quanto dall’insinuarsi di un’idea spaventosa. Si strinse le braccia intorno al petto e si incamminò verso casa.

Serena Pisaneschi

Foto in altro: di StockSnap su Pixabay

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1 commento su “Il peso della colpa, di Serena Pisaneschi. La realtà in una storia”

  1. Breve racconto molto bello. Sensazioni ed emozioni sono ben scritte e si sente il disagio di Giacomo e la noncuranza dei poliziotti.

    Mi piacerebbe il continuo e scoprire chi l’ abbia derubato e se non sono semplici delinquenti. ♡ Brava Serena.

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