La poesia nel dì di domenica: di nuovo insieme a Louise Glück

Gluck
La poeta di oggi, autrice di raccolte intramontabili, ha convissuto con la sofferenza affrontandola con coraggio e razionalità.

Su La Letteratura e noi Antonella Amato scrive: «Il nome di Louise Glück è stato spesso associato a quello di Emily Dickinson e Robert Lowell, ma anche a quello di Sylvia Plath e di Anne Sexton; tuttavia, anche se è innegabile il forte legame che la lega a questi poeti (soprattutto alla Dickinson, ma sarebbe opportuno aggiungere anche Dante e T.S. Eliot), è altrettanto chiaro che non la si può relegare nella corrente della “poesia confessionale” (Macha Louis Rosenthal usò per primo questa definizione, nel 1959, in Poetry as Confession dedicato a Life Studies di Lowell) perché, pur non avendo mai avuto reticenze a parlare di sé e del suo vissuto personale (i temi centrali delle sue opere sono “l’infanzia e la vita familiare, lo stretto rapporto con genitori e fratelli”, l’anoressia giovanile, il distacco, la solitudine, la morte, la natura), non ne condivide il pathos esistenziale, l’esibizione nuda e brutale del proprio io nell’istante dell’emozione, il soliloquio privato, appassionato e viscerale della propria vita psichica, instabile e repressa.

La poetessa americana sembra essere molto lontana da questa idea di poesia, e privilegia soprattutto la «ricerca di chiarezza», di sobrietà espressiva, e di una struttura compositiva rigorosa e severa attraverso cui, in un costante scavo autoanalitico (Glück non ha mai nascosto l’importanza dei sette anni di psicoanalisi che, come lei stessa afferma, «le hanno insegnato a pensare»), esprime conflitti, dissidi, il suo disincanto per il mondo (che nelle prime raccolte risulta più aspro, basti pensare a I bambini affogati in The Descending Figure, del 1980).

Il risultato è costituito da componimenti intimi, scabri ed essenziali, che raccontano con asciutta onestà, mista, a tratti, ad un distaccato risentimento e a una acuta ironia, le illusioni e le delusioni, il profondo senso di perdita, ciò che rimane dei desideri (“È notte per l’ultima volta / Per l’ultima volta le tue mani / si raccolgono sul mio corpo // Domani sarà autunno”, Le lettere, da The House of Marshland, 1975; “Divenni una criminale quando m’innamorai. /Prima facevo la cameriera / Non volevo venire a Chicago con te /Volevo sposarti, volevo / Che tua moglie soffrisse. […] / Il sogno non salva la fanciulla”, Sirena, da Meadowlands, 1996; “Pensavo che la mia vita fosse finita e il mio cuore si fosse spezzato. / Poi mi sono trasferita a Cambridge”, Vita Nova, 1999).

La sua vita, dunque, non rimane e non significa mai solo se stessa, perché le esperienze private evocate riescono sempre universalmente umane, e vi è, ovunque, una specie di rappresentazione eternante degli eventi e degli oggetti, in grado di trasformare i dati di realtà in emblemi imperituri, in un significato collettivo.»

Mattutino e Filadelfo sono le poesie che abbiamo già pubblicato nella nostra rubrica. Per questa domenica d’estate abbiamo scelto I gigli bianchi. L’elaborazione video è curata da Debora Menichetti.

Serena Betti

Foto in alto: Louise Glück

© RIPRODUZIONE RISERVATA

I gigli bianchi

Mentre un uomo e una donna fanno
fra loro un giardino come
un lenzuolo di stelle, qui
indugiano nella sera d’estate
e la sera diviene
fredda dal loro terrore: potrebbe
finire tutto, è passibile
di devastazione. Tutto, tutto
può essere perduto, per l’aria profumata
le colonne sottili
che si alzano inutilmente, e più in là,
un mare agitato di papaveri –

Zitto, amore. Non mi importa
quante estati vivo per ritornare:
in quest’unica estate siamo entrati nell’eternità.
Ho sentito le tue due mani
seppellirmi per sprigionare il suo splendore.

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