La poesia nel dì di domenica: di nuovo insieme a Marina Cvetaeva

Marina Cvetaeva
«I miei versi, come i vini pregiati, avranno la loro ora.» I versi e il mondo che desiderava raccontare furono la sua più grande passione e, al contempo, la sua rovina.

La poesia, per Marina Cvetaeva, fu uno strumento per guarire le proprie ferite e, una volta venuta meno quella terapia miracolosa, le sue piaghe ripresero a sanguinare. Alla fine, quell’anima piena di vita traboccò senza scampo. Il 31 agosto 1941 decise di abbandonare quell’universo in fiamme che nulla aveva più da offrirle e a cui lei stessa non poteva più dare niente. Si impiccò nella catapecchia sulla riva del fiume che aveva affittato al suo ritorno in Russia. Tra ciò che sentiva dentro e ciò che vedeva fuori, la poeta visse un contrasto insostenibile.

Ma non fu così fin dall’inizio. Cvetaeva, estremamente ribelle e unica, sia come scrittrice che come donna, visse una vita piena di colori, accogliendo tutte le sfumature che le si presentavano. Ebbe numerosi amanti, uomini e donne, e non ne fece mai mistero: «Una persona è troppo poco per capire la verità sull’amore.» Fu sempre estremamente libera, ma non fu mai compresa fino in fondo in nessuna delle sue scelte.

Durante la sua carriera scrisse senza sosta, conciliando i suoi doveri di madre e moglie con la poesia senza sentirne il peso, riversando su di essa la sua forte energia espressiva e scrivendo più di quanto riuscisse a pubblicare.

Il marito, Sergej Efron, comprese e allo stesso tempo soffrì il dinamismo e la passione creativa della moglie: «Marina è una creatura di passioni […] Chi sia la causa scatenante dell’uragano non importa […] Non importa la sostanza, non la fonte, ma il ritmo, il ritmo indemoniato. Oggi disperazione, domani entusiasmo, amore, nuovo gettarsi anima e corpo, e il giorno dopo, di nuovo, disperazione. E tutto questo in presenza di un’intelligenza acuta, fredda (starei per dire cinicamente voltairiana). Le cause scatenanti di ieri oggi vengono derise in modo spiritoso e crudele. […] Come una grandissima stufa che, per funzionare, ha bisogno di legna, legna, legna […] e la qualità della legna non è molto importante. Finché il tiraggio è buono, tutto si trasforma in fiamma.»

La poesia di oggi esprime bene il senso di identità e di unicità della poeta. Infatti, la metafora della spuma del mare descrive la sua natura effimera e ribelle. La poeta si identifica con essa, che è in continua trasformazione e infedele alle forme fisse e prevedibili. Cvetaeva si distingue dagli altri, dichiarando che, mentre alcuni sono fatti di materiali comuni come pietra e argilla, lei è fatta d’argento, un materiale prezioso e brillante.

La poeta afferma la sua volontà di libertà e ribellione, che non può essere contenuta o limitata. La spuma del mare si infrange sulle rocce ma continuamente rinasce, simbolo di forza e rinnovamento. Il poema si chiude con un’esaltazione gioiosa della schiuma del mare, simbolo di leggerezza e vitalità.

Per La poesia nel dì di domenica, Serena Betti legge per noi Spuma di mare di Marina Ivanovna Cvetaeva. Buon ascolto.

Debora Menichetti
Foto in alto: Marina Cvetaeva
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Spuma di mare

Chi è fatto di pietra, chi è fatto d’argilla –
Io invece sono fatta d’argento e brillo!
La mia occupazione – è il tradimento, il mio nome – Marina,
io – sono l’effimera spuma del mare.
Chi è fatto d’argilla, chi è fatto di carne –
a costoro la bara e le lastre tombali…
-battezzata nella fonte marina – e nel mio
volo continuamente infranta!
Attraverso ogni cuore, attraverso ogni rete
batte il mio arbitrio.
Io – vedi questi ricci scomposti? –
non sono fatta del sale della terra.
Mi frango sulle vostre granitiche ginocchia
e da ogni onda – risuscito!
Evviva la schiuma – l’allegra schiuma –
l’alta schiuma del mare!

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