Pillole di femminile – Storie piccole che raccontano un mondo grande #105

Rosalba Risaliti - pillole di femminile
La pillola di oggi è un racconto di Rosalba Risaliti “L’odore della luna” dove il confine tra sogno e realtà si dissolve in una notte di passione.


Pillole di femminile, la rubrica per riflettere su alcuni piccoli grandi temi legati alla vita di tutti i giorni. 

L’ODORE DELLA LUNA di Rosalba Risaliti

8 gennaio
Sono uscita senza guanti e non ho preso le chiavi; non posso tornare indietro: se suono perché ho dimenticato qualcosa, lui me lo fa pesare. I primi tempi si alzava, mi preparava il caffè e mi portava fuori la bicicletta. Sono anni che non lo fa più, mi girano in testa le parole di mamma: “Che ci vuoi fare?”. Non le rispondevo perché non sapevo rispondere, e neanche ora lo so.

Fuori c’è odore di legna bruciata da tempo, la luce della luna illumina le mie mani rosse sul manubrio, è così freddo che faccio fatica a stringerlo e anche a spingere sui i pedali, sarà per i piedi gonfi, e poi il cappotto mi stringe, è tutto così scomodo. Ci vorrebbe un cappotto nuovo, ci vorrebbe anche una bicicletta nuova, magari con il cambio. Lui me l’aveva promessa per il compleanno, due, tre anni fa, chissà.

Quando glielo ricordo fa una risata stupida, dice che è colpa degli astronomi, sono stati loro a volere l’osservatorio in cima alla collina dove non arriva neanche l’autobus. Secondo lui sono tutti matti. Forse ha ragione: stanno alzati tutta la notte a guardare il cielo, a fare i conti, a fumare. A inizio turno li trovo mezzo addormentati con le cicche che penzolano dalla bocca e i posacenere pieni. Mi sembra di sentirlo, l’odore delle cicche, proprio ora che la salita si fa più dura.

Mi sento spompata, stanca di pedalare, pedalare e lavorare, e stanca anche di lui che se ne resta a letto a russare con la faccia beata, come un cretino. Almeno ci fosse ancora mamma, mi diceva: “Dai che ce la fai!”, e io ce la facevo. Adesso che se ne è andata devo imparare a dirmelo da sola, una, due, tre volte.

La salita sembra non finire, ma ce la faccio: arrivo senza fare ritardo, che a noi delle pulizie ci fanno timbrare il cartellino e agli astronomi invece no. Nel parcheggio c’è solo una macchina: quella del ricercatore giovane mezzo zoppo, è nuovo, è arrivato da un’università del nord.

9 gennaio
Che figura! Ieri mentre timbravo il cartellino m’è sembrato di sentire un verso strano, mi si è fermato il cuore. Ho avuto paura che il custode avesse liberato Bob; quello morde tutti, ha morso anche il direttore nuovo. Sono entrata di corsa dentro l’osservatorio, e davanti allo spogliatoio ho visto lo zoppo, tutto rosso in faccia, sudato come se si fosse d’estate.

C’era un odore forte e strano che a ripensarci mi fa venire i brividi. Non ho fatto neanche in tempo a scappare nel bagno e ho vomitato sulla porta dello spogliatoio. Lo zoppo mi ha visto di sicuro, «Capace che va a dirlo al direttore», mi sono detta. E mi sono messa a tremare, un po’ per la vergogna e un po’ per la paura di perdere il lavoro.

Quando ho finito di pulire il disastro che avevo fatto mi ha portato un bicchiere d’acqua. Mi sbagliavo a pensare che è uno che fa la spia, devo dirlo anche alle altre ragazze: loro dicono che è pieno di tic e che è sicuramente mezzo matto, ma sbagliano anche loro. Mi ha detto che forse avevo avuto una congestione, ha ripetuto la parola congestione con quel suo strano accento del nord, e mi sono sentita bruciare le guance, devo essere diventata rossa come quando ero una bimba.

Poi mi sono accorta di aver macchiato il grembiule da lavoro: mi sono venute le mie cose, così all’improvviso. Che scema, dovevo aspettarmelo, la prossima volta lo segno sul calendario come faceva mamma quando era giovane.

6 febbraio
Quando sono uscita lui ha borbottato un saluto, ma forse era solo un brontolio della notte. Fuori la strada è lucida di pioggia, ma c’è luce. Pensavo di aver fatto tardi, tanto era chiaro. È la luce della luna, tonda, gialla proprio sopra la cupola dell’osservatorio. Io così grande e così gialla non l’avevo vista mai. Sarà un fenomeno speciale, o forse sta per venire il terremoto.

Mamma lo diceva sempre che certi terremoti vengono fuori per colpa della luna. Potrei chiederlo agli astronomi, ma mi vergogno, non voglio
fare la figura dell’ignorante, anche se lo sanno già che sono ignorante. Mi sento gonfia, ma pedalare incontro alla luna mi fa sentire più forte, come se ci fosse qualcuno che soffia intorno ai pedali.

Oggi arrivo in orario, questo mese ho fatto solo due ritardi. Lui dice che mi manderanno via, ma lo dice per farmi arrabbiare, non mi possono licenziare proprio ora che è cambiata la responsabile delle pulizie. Quella di prima se ne è andata senza prendere i soldi del mese dicono che è malata e forse è diventata matta, qualcuno dice che è scappata o forse è morta, non mi dispiace, era una vecchia scorbutica e mi sgridava sempre. Mi trattava come una buona a niente, ma io quelle stanze le lascio pulite meglio di casa mia, e anche se mi hanno detto di non farlo spolvero bene i telescopi. Però la parte di vetro no, lo zoppo mi ha spiegato che costa più di un’automobile.

Sarebbe bello avere un’automobile, così non dovrei pedalare. Ora che la salita si fa sentire ho le gambe dure come il legno. Entro nel cortile. Anche stasera è di turno lo zoppo. Ieri deve esserci stata una riunione: il piazzale è pieno di buche come se qualcuno avesse fatto avanti e indietro con la macchina. Devo stare attenta se non voglio cadere dalla bicicletta in mezzo al fango.

Dietro la siepe c’è qualcosa che luccica; prima timbro e poi vado a vedere, anzi prima timbro, poi spazzo il corridoio e poi vado a salutare lo zoppo. Le altre colleghe dicono che pare un contadino, che sa di bestia selvatica, che dovrebbe tenersi un po’ più in ordine, dicono anche che deve essere presuntuoso.

Non capiscono niente, è vero che si lava poco, ma una volta ha anche accennato uno strano sorriso con quei suoi denti gialli, un sorriso da persona per bene. Scendo dalla bici, ho pedalato tanto ma la luna è sempre lontana come quando sono partita da casa.

8 marzo
Mi sono fatta coraggio e ho chiesto allo zoppo: «Perché qualche volta mi parla e qualche volta no?». L’ho detto piano perché mi vergognavo. Forse non ha sentito, non mi ha risposto, anzi non si è neanche voltato. La settimana scorsa ci siamo visti due volte, la prima mi ha detto tante cose importanti: che non devo fidarmi di nessuno, non devo dire che ci parliamo e se sento rumori strani devo mantenere il segreto.

Secondo lui i colleghi sono cattivi d’animo, tutti gli astronomi e anche le segretarie e le donne delle pulizie. La seconda volta che l’ho incontrato non mi ha detto neanche mezza parola, e anzi mi è passato accanto senza guardarmi, come se non ci fossi. Forse era preoccupato perché mi avvicino troppo al
telescopio nuovo.

Stasera però sembra un altro, mi ha salutato per primo e ha biascicato qualche parola che non ho neanche capito. Poi mi ha indicato il telescopio per le visite guidate e mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Ha regolato una leva e un paio di rotelle, ho accostato l’occhio al vetro tondo, ho sentito quell’odore di pelo di bestia, di acqua di fiori con il gambo marcio. Questa volta mi sono trattenuta, ho respirato fondo e sono riuscita a non dare di stomaco. Intanto mi sentivo marcire sotto la sottana, che avevo le mie cose, chissà se lui l’ha sentito l’odore del sangue vecchio.

Ho guardato nel mirino che mi ha indicato e sono rimasta delusa: la luna è più piccola degli orecchini che mi ha lasciato mamma. Forse con il telescopio nuovo si vede di più, è sicuramente così, altrimenti come avrebbero fatto a fare le foto con gli astronauti? Dopo mezzo minuto ero già stufa, ma lui ha insistito per farmi guardare ancora. «Lo sente anche lei?», gli ho chiesto, toccandomi la punta del naso.

Ha detto qualcosa, mi sembra di aver capito «Odore della luna.» Intanto, dietro di me mi sembrava di sentire un passo strascicato. Ma lo zoppo non si era mosso ed era così vicino che sentivo il suo respiro pesante. Non avevo nessuna paura. I passi devo essermeli sognati.

6 aprile
Il tempo è cambiato, si può uscire fuori senza guanti e senza pezzuola in testa. Gli alberi del viale hanno le foglioline verde chiaro, altri sono bianchi di fiori, e l’aria della mattina sa di bucce di patata. Se e mi ricordassi qualche canzone potrei cantare e il viaggio fino all’osservatorio sarebbe ancora più
piacevole. Con la primavera diventa tutto facile. Ho detto «Dai che ce la fai» una volta e mezzo, e sono arrivata subito al parcheggio. Mi è sembrato di nuovo di vedere qualcosa in mezzo alle piante. Devo ricordarmi di andare a controllare dopo aver timbrato.

Se ho letto bene, oggi è il turno dello zoppo, sì, è proprio il suo. Se ne sta appoggiato al muro accanto alla macchina timbratrice, è rosso come un ubriaco. Mi ha raggiunta, mi ha chiesto qualcosa, c’era la parola esperimento. Ho detto sì, che l’avrei fatto l’esperimento, ma prima dovevo cambiarmi. Sono entrata nello spogliatoio, di nuovo le mie cose, devo proprio pensarci a scriverle sul calendario. Quando sono uscita mi ha detto di tenere gli occhi chiusi «per l’esperimento.»

In mezzo a quel buio mi sembrava che l’odore della luna scendesse dal naso al centro dello stomaco e dallo stomaco in mezzo alle gambe. Ho fatto un bel respiro per controllare la nausea, non capivo più dove erano le sue mani e quante erano le sue mani. Mi è venuta voglia di abbracciarlo, ma lui si è lamentato con una specie di singhiozzo strozzato. Poi ha detto «No!», così forse e così preciso che sono rimasta quasi paralizzata, con le braccia
tese e le mani ferme, come un soldatino. Mi sentivo toccare, sulla pancia ho sentito un peso, poi qualcosa di forte, come se qualcuno volesse strapparmi via il sangue e il dolore. Non posso dire quanto tempo è durato. Mi è sembrato un sogno.

4 giugno
Ieri mi toccava il turno del pomeriggio. All’osservatorio erano tutti agitati per l’eclissi di luna, ci hanno fatto venire in tre per una pulizia speciale. Ci hanno detto che nel mezzo della notte la luna si sarebbe spenta per qualche minuto, ma io lo sapevo già. «L’ho sentito alla radio», ho detto alle altre, non potevo dire che me ne aveva parlato lo zoppo. Loro hanno alzato le spalle, a loro non importa niente della luna e delle stelle, pensano solo ai vestiti e al cinema della domenica.

Abbiamo lavorato come matte, poi è arrivato il direttore nuovo e ha chiesto solo a me di fare il doppio turno. Si vede che lo sa che a casa i soldi li porto solo io. Quando torno a casa lo dico a lui, così lo faccio rimanere male, ma magari a lui non importa niente. È sempre così: lui se ne frega e le levatacce devo farle io.

Non mi dispiace uscire con il buio quando l’aria è quasi calda. Ho il naso pieno d’odore d’erba, respiro fondo come se dovessi fare la scorta di aria buona: all’osservatorio ci sarà una invasione di cicche. Apro la porta; davanti alla macchina timbratrice c’è una nebbia fitta di sigarette e sigari, e la lavagna dell’aula grande è piena di sigle e numeri scritti male: devono averli scritti gli astronomi mentre la luna era spenta.

Apro tutte le finestre ed esco nel parcheggio, giusto il tempo di far cambiare l’aria. La siepe davanti alla macchina dello zoppo ha tutti i rami spezzati, sembra ci sia caduto addosso qualcosa. Peccato, era così bella! Tra le piante abbattute, dietro la macchina vedo qualcosa di chiaro: è un furgone, sembra uno di quelli per le casse da morto. È quasi bianco, un tempo deve essere stato celeste chiaro, adesso gli sportelli sono pieni di ruggine. Le ruote sono storte e sembra che si debbano staccare da un momento all’altro; il tettino di vetro è mezzo rotto: ecco cos’era che luccicava nelle notti d’inverno.

Sento mugolare, mi avvicino, li vedo: lo zoppo e una donna vecchia si rotolano su quello che è rimasto della siepe. Cerco le parole per giurare che non dirò niente a nessuno. Mi raggiungono velocissimi, come se lui non fosse zoppo e lei non fosse vecchia. Cado e loro sono sopra di me, con le mani tra le mie gambe, le teste contro la mia, e poi sul petto come se volessero spaccarmi il cuore. Lui respira con la bocca aperta e si contorce tutto, e io, non so come, non ho paura.

Rimango ferma, la sua bocca mi succhia come la ventosa per sturare l’acquaio, mi sputa dentro il suo fiato lezzo. Lei non la vedo, ma sento le sue mani, grida qualcosa, sembra la voce della scorbutica delle pulizie, non capisco le parole e poi non mi importa. Intorno a me solo aliti caldi e denti scoperti, non so cosa succede. Mi viene in mente mamma, «Dai che ce la fai», dico mentre mi lascio andare alle loro teste, alle mani, alle unghie, ai denti, con i miei denti, le mie mani, il mio odore di sangue vecchio. Non mi importa più dell’odore delle mie cose, non sento male ma solo un calore fortissimo.

Guardo la luna, il primo mugolio mi esce dalla bocca come un rutto, poi arriva il secondo, poi il terzo, sempre più forti, sempre più alti dalla mia gola stesa verso il cielo. Rotolo tra le fronde della siepe, l’odore della luna è finalmente mio.

Rosalba Risaliti

In alto: elaborazione grafica di Erna Corsi

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Rosalba RisalitiRosalba Risaliti è un’agronoma prestata alla chimica analitica lavora in un Centro di ricerche dell’Università di Pisa. Lettrice appassionata, fa parte del laboratorio permanente di scrittura QWERTY: un gruppo di persone che si incontrano settimanalmente per scrivere, leggere, criticare e discutere su quello che hanno scritto. Ha pubblicato una ventina di racconti. Coltiva una passione tardiva per il nuoto agonistico.

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