La poesia nel dì di domenica: di nuovo insieme a Katherine Mansfield

La poeta neozelandese, che amava rifugiarsi nel verde e nella letteratura, con i suoi scritti contribuì all’emancipazione femminile.

Nella categoria Bustine di zucchero del litblog poetarumsilva si legge: «Se guardassimo all’opera in versi di Katherine Mansfield, saremmo portati a credere che la sua attività poetica fosse parca ed occasionale, questo sia a causa della scarsa diffusione delle sue poesie (che furono pubblicate soltanto su rivista) sia perché la fama della narratrice oscurava la già esile figura della poetessa, fino a lasciarle poco spazio. Certo i suoi versi s’inseriscono in un contesto di scrittura privata, contrapposta alla finalità creativa dei suoi racconti; è poesia frequentata, riflettuta, ma non perseguita come vocazione in egual maniera della narratrice. Eppure l’autrice di The Garden Party ha scritto, nel suo breve arco di vita, oltre duecento poesie (in Italia sono state tradotte più o meno la metà) e alcune sono state scoperte qualche anno fa. Voce originale del Modernismo, la scrittrice neozelandese non si considerava una poetessa («Non ho poesie. Io non sono un poeta» scrisse in una nota lettera a Virginia Woolf); tuttavia il suo rapporto con la poesia fu assiduo.

Lettrice appassionata, e in particolare di Shelley e Keats, dal punto di vista della scrittura una severa autocritica, tradotta in reticenza, la lasciò a una soglia fra desiderio e rinuncia. Tuttavia pensare alle sue poesie come a una serie di testi riuniti, nel nome dell’occasionalità, in un libro (libro da lei non progettato, bensì riunito e pubblicato postumo dal marito e critico John Middleton Murry) e senza l’adesione a un ideale poetico comporterebbe una visione distorta o limitativa. A tratti la lettura pare restituire un rituale privato. Nondimeno le spie di una visione del mondo, le zone cave del pensiero, si colgono pure negli anfratti, nei confini dell’introspezione psicologica, nella concessione dell’intimità. La poetica della scrittrice si apre all’esterno, si direbbe nel modo più indifeso, senz’armi, con un tono limpido e narrativo, con una naturalezza scaturita da un’interiorità combattuta. Detto altrimenti, la Mansfield si fa leggere, non per la semplicità dello stile o per il vocabolario impiegato, ma perché le parole producono un flusso che giunge d’improvviso a un flash vocativo e rivelatore.»

Dopo Solitudine e Sanatorio, accompagnata dall’elaborazione video di Debora Menichetti, oggi proponiamo l’ascolto della poesia La caverna dai sogni di opale.

Serena Betti

Foto in alto: Katherine Mansfield

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La caverna dai sogni di opale

Nella caverna dai sogni di opale ho trovato una fata:
le ali più fragili dei petali di un fiore
più fragili dei fiocchi di neve.
Non era spaventata, stava sull’abisso delle dita,
con delicatezza cominciò a camminare sulla mia mano.
Ho serrato i palmi
per fare di lei la mia prigioniera.
L’ho portata fuori dalla caverna di opale
e ho aperto le mani.
Prima è diventata un soffione
poi un laccio tra i raggi del sole,
poi – più niente.
Vuota è ora la mia caverna dai sogni di opale.

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