Una delle artiste più famose che si è imposta sulla scena culturale. La sua storia ci insegna che dal dolore si può ricominciare.
Artemisia Gentileschi, pittrice italiana seicentesca, è una delle più importanti esponenti femminili del mondo dell’arte che ha saputo combinare vita e pittura creando uno stile così individuale che le sue opere sono facilmente riconoscibili. Una donna dalla vita travagliata, segnata da eventi tragici come la perdita della madre e la violenza sessuale da parte di Agostino Tassi.
Malgrado le disavventure, non si limita a subire e riesce a farsi spazio nel panorama artistico dominato dagli uomini. Come ha lottato contro Tassi, così ha sempre combattuto affinché il mondo conoscesse le sue capacità.
Momento significativo del suo lavoro è stata la realizzazione dell’opera Giuditta decapita Oloferne. Della medesima esistono due versioni conservate rispettivamente presso il Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli e presso le Gallerie degli Uffizi a Firenze.
Il dipinto raffigura l’episodio biblico in cui la giovane Giuditta mozza la testa del generale nemico Oloferne. Le valutazioni stilistiche e psicologiche hanno intravisto in Giuditta la voglia di Artemisia di vendicare la violenza subita.
Ma davvero l’opera è stata ideata solo con questo fine? Io ritengo che ci sia molto di più. Infatti, in anni recenti questa ottica è stata riconsiderata in quanto molti critici ritengono che una simile violenza fosse diffusa nelle iconografiche di quel tempo. Sulla base di questo non ci sarebbe un collegamento diretto tra l’artista e il desiderio di rivendicazione.
Certamente l’autrice si è rivista in Giuditta, l’ha fatta diventare un’estensione di se stessa e attraverso lei ha agito liberandosi delle catene e compiendo il proprio destino. Sono due facce della stessa medaglia: entrambe hanno usato gli strumenti a propria disposizione – chi la spada e chi il pennello – per difendere ciò in cui credono.
Giuditta oggi è una delle eroine femminili della storia dell’arte a cui il mondo guarda con ammirazione. Questo personaggio ha goduto e gode ancora di un grande successo. Compare più volte nelle belle arti, dalla pittura alla scultura, dalle miniature all’architettura, incarnando la donna che assoggetta l’uomo annullando il suo potere.
È ormai un punto di riferimento iconografico, impiegato anche come simbolo del femminismo nella lotta al patriarcato tale è la sua potenza di espressione. La scena, inoltre, ritrae anche un secondo personaggio femminile nella serva che aiuta a compiere la decapitazione. Come Giuditta non era sola, anche oggi ogni donna deve poter contare sulla solidarietà delle altre.
L’eroina non solo decapita un uomo, ma in senso allegorico a me sembra che decapiti anche tutto ciò che l’uomo rappresenta. Sta mozzando la testa del mostro e, sebbene ne ricresceranno altre, lei ha la forza per affrontarlo. Se nell’opera Susanna e i vecchioni Susanna si nasconde dallo sguardo viscido degli uomini, Giuditta è la reazione a quel timore che viene vinto con il coraggio.
La pittrice, già per il suo tempo una donna all’avanguardia, si dimostra tuttora una figura a cui le donne moderne possono rivolgersi in cerca di un esempio di indipendenza e coraggio. A distanza di secoli ci ricorda che una donna può essere e può fare tutto ciò che vuole, e lei stessa tramanda il messaggio quando scrive a un mecenate «Mostrerò alla Vostra Illustre Signoria ciò che una donna può fare. […] Le opere parleranno da sole.»
Artemisia Gentileschi con la sua arte parla di tutte noi attraverso un filo rosso che ci unisce e ci insegna che nella sofferenza possiamo aprirci spiragli di luce.
Altea Fiore
Foto in alto: Autoritratto come Allegoria della Pittura (1638-1639), Artemisia Gentileschi – da Google Arts & Culture
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