Interprete dei cambiamenti culturali del mondo coniugando passioni ed esperienze. Una professionalità che è continua scoperta.
La prima volta che ho incontrato Silvia Lelli abbiamo parlato di cinema. Eravamo nel 2021 e lei era tra le relatrici del festival internazionale DocuDonna dedicato ai documentari diretti da donne. Durante la nostra chiacchierata scoprii che stavo parlando con un’antropologa. Pensando a quelle figure mitologiche che nel passato si accampavano nella foresta amazzonica pensai che avremmo avuto molto altro di cui parlare. Le promisi che ci saremmo sentite ancora, perché la donna oltre il consueto che avevo intravisto aveva molto altro da raccontare. La mia intuizione era giusta e ora sarà un’impresa riuscire a parlare di tutto di tutto quello che compone il suo curriculum.
Ci racconta come e perché ha deciso di studiare antropologia?
«In realtà la mia passione fin da piccola era disegnare e avrei voluto iscrivermi al liceo artistico, ma i miei genitori non erano d’accordo e mi toccò il liceo classico. Per alcuni aspetti mi è anche piaciuto, ma avrei preferito seguire la mia vena artistica. Dopo cinque anni molto impegnativi tutti di teoria e con pochissima pratica non volli proseguire gli studi, cosa che invece i miei avevano immaginato. Decisi di iscrivermi alla Scuola di restauro per dipinti di Firenze e all’Istituto di Scienze Cinematografiche Lorenzo de’ Medici perché anche film e fotografia erano una mia passione. Per quindici anni ho restaurato dipinti, sia moderni che antichi, Magritte, Monet, Mantegna e tanti altri anche allontanandomi da Firenze. Avevo trovato un compromesso, ma quello che più desideravo era dipingere, non restaurare dipinti di altri.»
Ancora però non ci ha svelato come è diventata antropologa
«È successo dopo una decina di anni. Grazie al restauro mi sono resa conto di quante cose incredibili possono essere capaci gli esseri umani e decisi di tornare a studiare. Volevo capire come tutto questo poteva accadere e mi iscrissi a psicologia. Dopo dieci esami, preparando l’esame di psicologia sociale, mi si aprì un mondo: mi ero concentrata su ciò che avviene all’interno della mente umana per poi scoprire che invece è fondamentale quello che avviene intorno agli individui. Decisi di cambiare percorso e di passare a studi sociali dove ho scoperto l’antropologia, ma il mio peregrinare non era ancora finito. A Firenze trovai un corso di studi che la affrontava con un approccio che a me interessava e così ho cambiato ancora. Avevo trentacinque anni. Nel frattempo, continuavo a portare avanti le altre attività come i documentari e, ovviamente, i miei dipinti.»
Ora però vorremmo capire meglio di cosa si occupa l’antropologia
«In Italia è una disciplina non molto diffusa, c’è chi pensa che si occupi di animali o viene confusa con l’archeologia. In realtà studia le culture umane. In passato l’attenzione era rivolta soprattutto alle culture diverse e lontane da quelle occidentali, poi gli studi si sono orientati verso tutte le culture. Per cultura si intendono i saperi, il pensiero, le attività quotidiane, i materiali utilizzati, i manufatti, il saper fare e molto altro e sono tutti elementi che cambiano da una cultura all’altra. Per poter studiare questa disciplina occorre vivere con le persone oggetto di studio, occorre fare etnografia, fare ricerca sul campo. Per farlo ho vissuto nelle loro case, nelle baracche, nelle capanne. Personalmente l’ho sperimentato nell’Africa occidentale, sulla quale ho scritto la mia tesi di laurea, e in Bolivia con la popolazione indigena Guaranì studiando le loro scuole. La scuola era stata importata dai colonizzatori di lingua spagnola (prima i bambini imparavano dagli adulti vivendo), con il tempo le popolazioni locali hanno ottenuto che la scuola venisse fatta nella loro lingua, impedendo così che la loro cultura venisse cancellata. Il mantenimento della lingua d’origine ha anche permesso la conservazione delle loro storie e tradizioni. Questo è in poche parole l’antropologia.»
C’è stata un’antropologa che l’ha particolarmente ispirata?
«Sicuramente Margaret Mead. È stata la mia maestra virtuale al punto che su di lei ho scritto Quando l’antropologo è una donna. Le antropologhe ci sono e ci sono state ma lei fin da giovanissima capì che gli studi che l’avevano preceduta avevano offerto solo la prospettiva maschile, con un approccio fortemente patriarcale e maschilista, che veniva mantenuto anche in quelle culture che non presentavano caratteristiche patriarcali o maschiliste. Inoltre, gli studi degli antropologi del passato si erano concentrati solo sugli uomini, salvo pochissime eccezioni. Margaret Mead con i suoi re-studies inaugurò il filone dell’antropologia femminista, che sostiene che il corpo fisico dello studioso che si reca in un luogo per fare ricerca sul campo apre certe porte piuttosto che altre come quando, ad esempio, una donna anche se studiosa non aveva il permesso di partecipare a riti maschili e viceversa. Recentemente sono stata a Bali e sono andata come in pellegrinaggio nel villaggio dove Margaret Mead ha vissuto per la maggior parte del tempo. Lì ha vissuto insieme al suo terzo marito, l’antropologo Gregory Bateson, e ha studiato i bambini e le relazioni familiari locali. Confrontando le foto di allora con la Bali attuale i cambiamenti anche architettonici sono incredibili, sarebbe interessante ad esempio studiare quanto e come l’architettura modelli le relazioni sociali.»
L’antropologia ci pare di capire che affronti lo studio di una grande varietà di elementi che contribuiscono alla costruzione delle diverse culture. Ce ne sono alcuni che la appassionano in modo particolare?
«Direi di sì. Mi sono interessata di architettura dell’ambiente e di genere, in particolare della violenza di genere sulla quale ho anche scritto ma che ho preferito affrontare soprattutto attraverso i documentari. Penso che la visione di un film abbia un impatto più immediato e che sul tema della violenza di genere ci sia ancora una grande confusione. Per girare questi documentari ho incontrato tante donne che avevano subito violenza domestica, che io chiamo violenza invisibile. Non ero certa che le avrei trovate, non sapevo se sarebbero state disposte a parlarne e invece, contattandole attraverso associazioni che si occupano di questo tema, ho scoperto che avevano una gran voglia di parlare, anche perché ne erano uscite e quindi ne avevano preso coscienza. Ho scoperto che si tratta di un fenomeno trasversale che riguarda donne e uomini di diverse classi sociali, età, ambiti professionali. Persone che fino ad allora non si erano rese conto di vivere in una situazione di violenza. Questo avviene proprio perché è una questione culturale che permette a certi uomini di pensare di potersi comportare aggressivamente, di avere potere sulle loro compagne, di mettere in atto una gerarchia culturale fra i due generi dove quello maschile predomina. Su questa base si innestano i fenomeni di violenza fino ad arrivare ai casi più efferati dei femminicidi. I primi film li ho iniziati nel 2010 e sono proposti ancora oggi con montaggi differenziati a seconda del pubblico a cui sono destinati, che possono essere alunni delle scuole, studenti universitari o in generale persone adulte. È un tema molto delicato, ma la voglia di parlarne che ho incontrato è un segnale dell’esigenza di cambiamento.»
Pensa che sia molto forte questa esigenza di cambiamento?
«Credo di sì e mi sono resa conto che le situazioni di maggior aggressività si verificano proprio quando la donna non accetta più il modello di prevaricazione patriarcale di un marito o un compagno che vuole decidere lui, che vuole imporre alla donna certi modelli stereotipati che non sono più attuali. Non è più pensabile che la donna, oltre a lavorare fuori casa, debba occuparsi delle incombenze domestiche e di molto altro e farlo pure gratuitamente. Nelle famiglie, soprattutto italiane, c’è ancora una fortissima disparità da questo punto di vista, è proprio la necessità di cambiamento che scatena queste forti reazioni maschili. Come quando la donna vuole decidere, o intende interrompere la relazione e l’uomo invece pretende di mantenerla, come se la donna fosse una sua proprietà. L’elemento cruciale è che quella donna non sta combattendo contro un uomo ma contro un paradigma culturale dominante, quindi contro tutta la cultura. È questo che rende le cose molto difficili. Le proiezioni dei film avvengono alla mia presenza e in contesti in cui sia possibile poi discuterne, perché credo sia importante, dopo la visione, confrontarsi e parlarne in un dibattito con il pubblico. Mi sono accorta in queste occasioni che le persone hanno tante domande da fare o esperienze da raccontare, e non sono solo donne!
Ho intervistato anche uomini che hanno fatto violenza, sono storie dalle quali emerge come si tratti di una questione culturale che inconsciamente li portava a credere di potersi comportare in modo violento. Sia per le donne che per gli uomini che sono stati oggetto delle mie interviste preferisco questa forma di visione se vogliamo protetta dalla mia presenza o di altre colleghe perché non vorrei che in altri contesti, tipo ad esempio in internet, queste persone subissero ulteriori violenze anche solo per l’incredulità di chi guarda il documentario. Grazie invece al dibattito è possibile comprendere meglio i meccanismi nascosti sotto il fenomeno della violenza e anche scoprire che certi comportamenti che non riteniamo violenti invece lo sono a tutti gli effetti.»
Quali pensa possano essere dei buoni strumenti per far leva sul fenomeno della violenza?
«Non ho bacchette magiche e trattandosi di una questione culturale è qualcosa di molto difficile da sradicare, ma il fatto che tante donne ne vogliano parlare è un segnale che non può essere ignorato. Le donne vittime di femminicidio, che io definisco martiri di una rivoluzione, se combattono da sole contro una cultura intera affrontano una battaglia persa. Per questo credo sia molto importante avvalersi del sostegno delle tante associazioni che ormai da anni operano sul territorio, anche se poi vediamo che i governi non le finanziano come dovrebbero. Basta guardare la Casa internazionale delle donne di Roma che rischiava di essere chiusa. Il pericolo è stato scongiurato da una vera e propria sommossa popolare femminista e anche grazie al sostegno di quegli uomini che iniziano a capire che in questi squilibri c’è qualcosa che non torna. L’informazione è uno strumento molto importante e quando vado nelle scuole mi sento spesso chiedere “Ma perché queste cose non ce le hanno insegnate prima?”.»
I giovani di oggi riconoscono la violenza di genere?
«Non sempre. Ci sono ragazze giovanissime che scambiano il controllo del loro cellulare da parte del partner o la gelosia come una forma di amore. Parlarne tanto è importante e occorre farlo con una base di ricerca, anche quella antropologica femminista. Ci sono studiose straniere che spesso in Italia non sono neanche tradotte, questo forse può spiegare perché nel nostro Paese siamo così indietro, basta pensare ai programmi scolastici che non prevedono di affrontare la questione. Oggi c’è anche una soglia conservatrice che dice che va bene così, che confonde questa situazione con lo scambio di ruoli di genere, la sovversione dei ruoli tradizionali addirittura intesi come naturali senza sapere che tutto è una costruzione culturale. Si tratta di concetti che sosteneva quasi un secolo fa Margaret Mead, ma che ancora non sono così diffusi. C’è chi sostiene che la natura sia solo quella dei sessi, mentre da quando è stata coniata la parola genere abbiamo potuto comprendere che l’essere umano è qualcosa di molto più complesso, non solo genitali e cromosomi, e di come la cultura ti fa comportare in certi modi. Margaret Mead lo capì studiando tante culture diverse e si rese conto che se fosse stato qualcosa di naturale i ruoli sarebbero stati gli stessi ovunque. L’antropologia è uno strumento utile a comprendere che non esiste una sola cultura, che la nostra è una delle tante, e questo ci aiuta a relativizzare e ad assumere un approccio interculturale che vede tutte le culture paritarie.»
Per quanto riguarda i più giovani che rappresentano il futuro come pensa andrebbe affrontata la questione delle relazioni di genere?
«Quando vado nelle scuole vedo che i giovani hanno grandissime fragilità nelle relazioni di genere. Ad esempio, sento di giovanissime che scambiano per amore il partner che vuole sempre sapere dove sono, con chi sono, come sono vestite, pretendono addirittura le foto per dimostrare dove sono. Questo è controllo, non è amore. Si tratta di aspetti educativi che dovrebbero essere diffusi in modo capillare su tutto il territorio nazionale e a tutti i livelli scolastici. È qualcosa che riguarda i diritti e le libertà a livello paritario per tutti, qualcosa da non confondersi con altro. Oggi si parla tanto anche di linguaggio e i più giovani, ma non solo, comprendono poco l’attuale dibattito sulle professioni declinate al femminile. È una questione di linguistica cognitiva, materia nel nostro Paese dimenticata o quasi che ho avuto la fortuna di poter studiare a Berkeley con George Lakof, che spiega come il linguaggio crei nel cervello delle idee che altrimenti non avremmo. Se noi continuiamo a parlare alle bambine solo al maschile nascondiamo il fatto che possano essere astronaute o avvocate, forniamo loro un immaginario parziale e limitato. Se parliamo loro anche al femminile entrerà nella cultura che hanno il diritto di scegliere di fare quello che vogliono. Le donne del passato che hanno sfidato il consueto erano eccezioni. Per comprendere quanto ancora l’immaginario collettivo sia limitato basta riflettere che se a una neomamma è pensabile, anche se poco comune, regalare un vestitino azzurro per una bambina non è neanche vagamente immaginabile regalare qualcosa di rosa per un maschio. Si tratta di gabbie culturali che si portano dietro la disparità.»
Perché ci sono uomini così restii al cambiamento? Forse una maggiore parità a loro non conviene?
«Molti pensano che non convenga. Viene loro automatico pensare che con una maggiore parità perderebbero ad esempio la casalinga che hanno a disposizione gratuitamente. In realtà lavorando con gli uomini che hanno agito violenza grazie ad associazioni come il Centro di ascolto uomini maltrattanti hanno realizzato che erano profondamente scontenti della loro vita, che si portavano addosso un disagio enorme che talvolta sfociava in violenza o che comunque creava attriti e tensioni. Sostenevano che era la donna a essere sempre nervosa, e lo è di certo trovandosi in una situazione così poco paritaria e serena, ma non è quello il punto. Affrontando la questione il rapporto di coppia diventa più disteso e piacevole per entrambi, anche gli uomini diventano più felici. Spesso è necessario un percorso psicologico e sono situazioni derivanti da frustrazioni che hanno origine in un paradigma sociale e culturale nel quale l’uomo deve comandare, altrimenti si sente sminuito. La competizione ci viene insegnata da sempre, ma perché deve sempre esserci questo squilibrio? Dovremmo riuscire a decostruire questi modelli di maschilità competitiva.»
Il tempo di un’intervista non è certo sufficiente a rappresentare tutte le mille sfaccettature di Silvia Lelli che, da vera donna oltre il consueto, mi ha mostrato come dietro la figura professionale dell’antropologa si nascondano tante abilità, conoscenze e passioni che ha saputo cogliere e valorizzare. Non basterebbe un romanzo per raccontarvi delle sue partecipazioni al Festival Cinema e Donne di Firenze, delle esperienze come artista che hanno saputo coniugare anche la passione per il nuoto in mare e l’attenzione per l’ambiente, della sua attività come docente universitaria e scrittrice, dei documentari che ha girato come quello sulla direttrice d’orchestra Johanna Knauf.
Il suo è un curriculum lunghissimo che non può essere altro che un’esortazione a continuare a seguire Silvia Lelli per scoprire le altre sorprese che sicuramente ci attendono.
Paola Giannò
Foto in alto: Silvia Lelli
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