La pillola di oggi è un racconto di Daniele Mannini “Burrneshe” (Vergini Giurate). La burrnesh è un’antica tradizione balcanica che permette alle donne di vivere come gli uomini, purché facciano voto di castità.
Pillole di femminile, la rubrica per riflettere su alcuni piccoli grandi temi legati alla vita di tutti i giorni.
BURRNESHE (VERGINI GIURATE) di Daniele Mannini
Sono tutti lì, seduti in tondo nella piazza della chiesa. Il padre di Bena si riconosce subito, è sempre con la sigaretta in bocca, anche se è spenta. Mio padre mi raccontava che la fa mescolando il tabacco con la merda di cavallo, dice che sono più buone. Lui era molto amico di mio padre. E poi c’è anche Aidan il fratello di Celina, il ragazzo più bello del paese, che quando torna a casa lo spio da dietro la finestra, senza farmi vedere, se no sono botte. Anche il padre di Celina è morto, come il nostro, ma lui di malattia e ora è Aidan che porta il fucile anche se ha dodici anni. Nella nostra famiglia un maschio non c’è, per forza è toccato a Lisna. Per forza, se ero io la più grande sarebbe toccato a me, se no nessuno ci difende.
L’aspettano tutti, nella piazza. Parlano, fumano. Facce dure, c’è anche lui, con gli occhi bassi, sembra quasi che dorma e invece è pronto a mordere, come una vipera. E si sa tutti cosa ha fatto. Mi stacco dalla finestra, torno in cucina, voglio abbracciare la mamma.
Lisna si sta tagliando i capelli e secondo me anche lei pensa proprio a quel maledetto. Prende un ciuffo, lo tira con il pugno chiuso e chiude le forbici con rabbia, per tagliarli più corti che può. Quando si accorge che sto piangendo mi mette la mano sulla testa e mi fa una carezza.
«Alma, non devi avere paura. Ora ci sono io. Non devi avere paura di nessuno.» Mi sorride. Poi piega la testa di lato e sputa per terra. È come se sputasse in faccia a lui, e la mamma non dice niente, perché capisce che è per quello. Poi Lisna prende il fucile di nostro padre, si passa la lana del maglione sugli occhi, mi sorride un’altra volta e se ne va. La seguo a distanza. La vedo salire fino alla piazza, si ferma in piedi, davanti a loro.
Non sento cosa si dicono, vedo solo che non la guardano più come si guarda una donna. Hanno rispetto. Lisna tiene il fucile afferrandolo vicino al grilletto, come a dire che lo sa usare. Lo devono capire tutti che non ha paura, perché il sangue chiama sangue e tutti lo sanno. Lo sanno più di tutti i maschi dei Beqiri e scommetto che già si chiedono a chi di loro toccherà se Lisna troverà il coraggio di pareggiare il conto.
Sta fissando proprio lui, non gli stacca gli occhi da dosso. Scommetto che lo guarda con odio, con la faccia di pietra che gli ho visto davanti alla bara di nostro padre, e da quel giorno non l’ha più lasciata, quell’espressione, come se ci fosse nata, più dura delle loro. Di tutti loro. Da domani si siederà dove stanno gli uomini, fumerà e berrà fino a ubriacarsi, se avrà voglia. E non dovremo avere paura, quella ora tocca ai Beqiri.
Continueremo a chiamarla Lisna, ma per tutto il resto sarà un uomo, per tutti, anche per me e la mamma.
Alma guarda l’ora, spegne la luce. Bianca dorme, le gocce hanno fatto effetto. Almeno sua figlia riuscirà a dormire. Per lei, invece, non c’è verso di prendere sonno. Ha provato a prenderle anche lei, le gocce, ne ha già prese dieci in più di quanto prescritto, ma l’effetto è stato quello di un bicchiere d’acqua. Con la musica non è andata meglio e allora ha provato con un romanzo. Niente da fare, tutto inutile. Non resta che aspettare che faccia giorno e tanto vale stare a luce spenta, almeno riposa gli occhi. Il ricordo di Lisna le fa compagnia.
Lo sapevo che l’avresti fatto.
Il sangue chiama il sangue, si diceva così.
Solo i Beqiri non ci credevano, volevano agire per primi, anche con te, come avevano fatto con nostro padre e invece te ne sei portati via due, prima di morire.
Povera Lisna, che vita ti è toccata.
Mi addormentavi, mi dicevi che c’eri tu a proteggermi.
Lo sai? A quel tempo non capivo perché diventavi dura quando ti accorgevi che ricambiavo lo sguardo di un ragazzo.
Sembravi gelosa.
Sì, gelosa come tutti i padri e i fratelli del villaggio.
E poi giù con la solita predica: «Tu devi studiare. E te ne devi andare, che alla mamma ci penserò io.»
Eri davvero un bel tipo, Lisna, non dovevo guardare i ragazzi, ma non dovevo abbassare la testa se mi fissavano.
«Non devi avere paura. È con quella che ti fregano, non devi averne, ricordati che ci sono io a proteggerti. Ci sarò sempre.»
Le stesse parole me le dicesti mentre salivo sulla nave insieme a nostro cugino.
Continuavo a ripetermele, sai? Mentre lasciavo il porto e i monti a oriente di Durazzo diventavano sempre più lontani per perdersi nell’orizzonte.
Stammi vicino, domani aiutami a non avere paura.
Il bar è quello accanto al tribunale. «Troviamoci lì», aveva detto l’avvocata.
Erano arrivate con largo anticipo, per paura di un inconveniente, che può sempre capitare. Controlla l’ora. «Se fra dieci minuti non arriva, la chiamo», dice rivolta alla figlia, in piedi accanto a lei, con lo sguardo perso nel vuoto.
«Eccomi». La voce la coglie alla sprovvista.
«Scusate, è tanto che aspettate? sono dovuta passare in ufficio», dice accennando con lo sguardo alla borsa che tiene sottobraccio.
«Sediamoci», appoggia il soprabito e la borsa sulla sedia. «Cosa prendete? Stia ferma, signora, faccio io».
Il caffè del bar ha tutto un altro sapore rispetto a quello della moka. Lei al bar è raro che ci vada. Si, da giovane lo faceva, ma dopo che era nata Bianca, no. Che stupido pensare al caffè, in un momento come questo.
L’avvocata risponde a una telefonata che si prolunga oltre il tempo desiderato. La chiude ostentando sollievo e con un gesto rapido si porta la tazzina alla bocca per un ultimo sorso.
«Andiamo?», dice prendendo borsa e soprabito.
Si alza, madre e figlia la seguono, camminando un passo indietro. Alma si sente appesantita, l’eco dei suoi passi sul pavimento di marmo le sembra risuonare indecorosamente, più forte del brusio delle persone che sono lì in attesa. L’avvocata si ferma, le invita a sedersi su una panchina di marmo, a fianco di una colonna e inizia a parlare sottovoce con Bianca per le ultime indicazioni. Anche lei si era raccomandata con la figlia, prima di uscire da casa. «Ascolta bene quello che ti dice di fare, vedrai che tutto si metterà a posto».
Ma adesso Alma non è più così tanto sicura che andrà tutto bene. Stringe il bordo della borsa che tiene sulle ginocchia come se temesse di perdere qualcosa. Si sente smarrita in quell’edificio austero, in mezzo all’andirivieni di avvocati e assistiti. Sembra che tutti sappiano cosa fare, tutti meno che lei. Una decina di metri più avanti scorge i genitori di Momo, accanto a loro anche la famiglia degli altri due ragazzi. La mamma di Momo la vede e con un cenno con gli occhi segnala al marito la presenza di Alma che abbassa lo sguardo. Tre anni a servizio da loro, si era fidata. La signora la prendeva in giro perché non lasciava mai sua figlia libera di uscire. «Alma», le disse, «in Sardegna ci siamo anche noi. Non si fida?». L’aveva fatto, si era fidata, della signora, e di Momo. E aveva lasciato che Bianca andasse in vacanza con loro.
L’avvocata tocca il braccio di Bianca, è il loro momento. Entrano tutti. Alma segue il processo come se non volesse perdere neanche una parola, ma è frastornata, se fosse possibile sentirla si capirebbe che sta solo pregando. Poi improvvisamente si risveglia, Bianca è chiamata a rispondere. L’avvocato la investe con domande serrate:
«Perché hai accettato di andare in casa loro?»
«Come ha fatto a togliere gli slip?»
«Perché non ha urlato?»
«Perché non ha usato i denti?»
Bianca crolla. Scoppia a piangere nascondendo la testa tra le mani. Alma non capisce perché quelle domande crudeli è tentata di andare dalla figlia per abbracciarla, ma sa che non può. Sarebbe peggio. La guarda come se cercasse di dire qualcosa, poi si volta per non sentire lo strazio. Si volta e incontra loro. I ragazzi ostentano sicurezza, anche i genitori sembrano sollevati dal vedere Bianca a pezzi. Il padre di Momo la sta guardando con un sorriso cattivo. Le aveva offerto soldi, tanti, per mettere tutto a tacere e quando lei ha rifiutato sono partite le minacce e gli insulti. Adesso è lì che la guarda, come a dire: «Te l’avevo detto». Si compiace nel vedere Bianca trattata come una poco di buono. Se li immagina i discorsi che metterà, che tutti loro metteranno in giro.
Vorrebbe sparire, vorrebbe essere con Bianca lontano da lì perché è sua la colpa, perché si è fidata e non ha protetto sua figlia. È in quel momento che sente Lisna: «Non devi avere paura. È con quella che ti fregano, ricordati che ci sono io a proteggerti.»
Alma singhiozza nascondendosi la testa tra le mani poi le lacrime finiscono. Improvvisamente non ci sono più, e anche la paura è andata via. Solleva la testa, un gesto misurato, una nuova calma, quella che ti fa sentire che tutto diventa chiaro. Adesso sa cosa deve fare.
«Ridi, ridi», sussurra rivolgendosi a lui, che la sta ancora guardando. Questa volta i soldi, la posizione, nemmeno la tua superbia ti basterà. «Non ho paura, Lisna, non ho paura.»
Daniele Mannini
In alto: elaborazione grafica di Erna Corsi
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Daniele Mannini è uno psicologo e psicoterapeuta, vive il suo tempo immerso nelle storie di sempre: speranze, delusioni, paure. Qualche volta è qualcuno che non trova la strada o da chi la vuole cambiare e non ci riesce. Scrivere storie è un piacere che ha scoperto da poco, come rivolta verso un mondo chiuso di diagnosi, teorie e protocolli, perché come afferma lui stesso «le storie sono anarchiche, ti portano dove vogliono loro.»