Quando uno spot pubblicitario sembra dire una cosa invece intende tutt’altro

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È vero che ultimamente il mondo della pubblicità sta diventando più inclusivo, ma certi messaggi sono difficili da scardinare.

Si dice che la pubblicità sia l’anima del commercio e sappiamo che è grazie agli spot pubblicitari che le persone comprano questa o quell’altra cosa. Quello che invece non si dice è che la pubblicità è anche subdola e strabordante di stereotipi e che elargisce giudizi meschini e sensi di colpa pesantissimi sulla donne.

Tra i tanti spot, in questi giorni sono incappata in uno che vede protagonista Michelle Hunziker. Lei e altre quattro ragazze indossano body striminziti mostrando fiere il loro lato B. Fin qui tutto bene, sono belle, si muovono a tempo, la canzonetta è orecchiabile. Poi ho ascoltato meglio le parole, che a un certo punto recitano: «Baby I love Goovi, che va bene per tutti, tondi, snelli o paffuti, muovili, muovili, muovili, baby shape your booty» e poi Hunziker dice: «Tutte le chapet meritano di essere protagoniste», peccato che stia pubblicizzando un prodotto per eliminare la cellulite.

Questa pubblicità è una contraddizione in termini: se tutte le chiappe meritano di essere protagoniste, perché mi devo preoccupare di non avere la cellulite? Cioè prima si dice che non ci sono discriminazioni chiappettiche e poi si raccomanda l’uso di cosmetici e integratori per eliminare gli inestetismi.

Shape your booty” significa letteralmente “modellare, dare forma al tuo culetto”, quindi sederi all’aria si, purché prima tu li renda accettabili. Mi ricorda vagamente Orwell e la sua fattoria degli animali, nello specifico la citazione: «La legge è uguale per tutti, ma per alcuni è più uguale di altri.» E la frase finale: «Perché siamo tutte uno spettacolo» con la quale Hunziker chiude lo spot mi appare veramente una presa per i fondelli, anzi per le chapet, di dimensioni mastodontiche. Siamo tutte uno spettacolo, sì, ma guai a chi ha la cellulite!

Fortunatamente chi inventa le pubblicità sta cominciando ad aprire gli occhi e rendersi conto che al mondo esistono infinite unicità. Dove ha creato uno spot per un deodorante che vede protagoniste le donne e le loro ascelle. Sullo schermo si susseguono donne giovani, meno giovani, con la pelle liscia, tonica e meno tonica, normopeso, non normopeso, con la vitiligine, con la pelle scura, con la pelle chiara, non depilate, depilate, con un cromosoma in più, e sono tutte splendide.

Queste sono le donne “vere”, le donne che incontriamo al lavoro, in palestra, al parco, nei locali, a fare la spesa, nelle case. Tutte quante sudano, tutte quante usano il deodorante, quindi perché mostrare solo un tipo di donna?

C’è una frase finale che dice: «la perfezione non esiste, la nostra voce sì». Ed è vero, perché i prodotti pubblicizzati poi vengono acquistati da tutte le donne, non solo da quelle bianche, magre, perfettamente depilate e con il numero giusto di cromosomi. Le persone che non sono attinenti alle richieste estetiche della società (e sono la stragrande maggioranza) già vivono se stesse, nel mondo, con molta difficoltà, perché è necessario anche stigmatizzarle negli spot pubblicitari?

È una pratica sadica, se non terroristica. Creme antirughe, tinture per capelli, cibo ultralight, cosmetici, prodotti per combattere la cellulite. E chi più ne ha, più ne metta. Siamo tempestate ogni giorni di messaggi che ci dicono che non andiamo bene per come siamo e, francamente, cominciamo a essere stufe.

La pubblicità è l’anima del commercio, si diceva prima, ma è ora che i creativi comincino a raccontare la realtà com’è veramente e non come dovrebbe essere secondo dettami che hanno annoiato e ferito abbastanza. Basta stereotipi e attinenze da osservare. Negli ultimi tempi qualcosa sta cambiando, è vero, ma vorrei che chi commissiona le pubblicità abbia il coraggio di mettersi al fianco delle persone reali e che personaggi pubblici piuttosto conosciuti non si prestino più a pubblicità discriminatorie mascherate da jingle simpatici e lati B abbaglianti.

Serena Pisaneschi

Foto in altro: foto di Maria Luiza Melo su Pexels

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