Julia Margaret Cameron: la fotografa ritrattista “fuori fuoco”

Julia Margaret Cameron
«Dal primo momento ho maneggiato il mio obiettivo con tenero ardore ed è diventato per me una cosa vivente, con voce e memoria e vigore creativo». Dal primo numero de L’Altro Femminile.

La fotografia deve allontanarsi dall’essere uno strumento di riproduzione meccanica e il fotografo deve avere la libertà di interpretare e creare la propria visione del mondo, era questa l’idea rivoluzionaria di Julia Margaret Cameron. Osservando i suoi ritratti emerge un’arte fotografica che si avvicina a come i suoi occhi vedevano. Con Cameron nasce la più audace e riuscita applicazione dei principi delle belle arti alla fotografia, realizzata per sé e per chi può comprenderla.

Julia Margaret Cameron era una fotografa inglese dell’800, nata a Calcutta nel 1815 da James Pattle, un ufficiale inglese della British East India Company, e Adeline de l’Etang, aristocratica francese. In età scolare fu mandata dalla famiglia in Francia, dove ricevette un’istruzione appropriata al suo ceto sociale. Nel 1838 tornò in India per sposare Charles Hay Cameron con il quale ebbe sei figli e altrettanti ne adottò. L’impegno con i figli non le impedì di partecipare attivamente alla vita

sociale e culturale del suo tempo: quando, nel 1848, la coppia si trasferì a Londra, Julia si inserì ben presto nella vita culturale della città frequentando personaggi illustri, artisti, intellettuali, scrittori.

Nel 1860 la famiglia Cameron acquistò una proprietà nell’isola di Wight. La proprietà venne chiamata Dimbola Lodge e ospita tuttora un museo e una mostra fotografica di Cameron. Fu proprio qui che, all’età di quarantotto anni, Julia si avvicinò all’arte fotografica; la fotografia, inizialmente impiegata per riempire la solitudine dovuta alla lontananza dai figli ormai grandi e dal marito rientrato nel Ceylon per seguire gli affari, divenne la sua ragione di vita con l’intento di catturare tutta la bellezza che era venuta prima di lei, ispirandosi a poemi e leggende.

Le parole di Cameron rivelano un inizio da dilettante pieno di determinazione nei confronti della fotografia: «Ho iniziato senza alcuna conoscenza dell’arte» ha scritto. «Non sapevo dove posizionare la mia scatola scura, come mettere a fuoco la mia modella, e la mia prima immagine l’ho cancellata con costernazione strofinando la mano sul lato opaco del vetro.»

Donna eccentrica e di grande carisma, riuscì a trasformare un timido approccio iniziale in una esuberante passione che la porterà a essere una fotografa fuori dagli schemi e dai metodi non convenzionali, a partire dalla preparazione degli scenari fotografici fino alla stampa, che eseguiva lei personalmente, adottando una tecnica volutamente “sporca” per dare enfasi e un aspetto etereo ai suoi scatti.

La Cameron fu un vulcano di creatività; il suo ardore la condusse verso lo studio delle immagini che divennero una vera e propria rivoluzione dell’arte fotografica del tempo. Il suo ossessivo e minuzioso studio dei ritratti e delle scene teatrali, che oggi vengono paragonati alla pittura contemporanea, conferì ai suoi lavori un aspetto trasognante ed evocativo. La critica non apprezzò pienamente le sue opere, le ridicolizzò definendole “sciatte”, il risultato di una scarsa abilità nel maneggiare la macchina fotografica, ma questo non le impedì, nella sua breve carriera (1864-1875), di proseguire il suo operato. Realizzò una vasta produzione di immagini senza rinunciare alla sua visione artistica della fotografia; i suoi affascinanti ritratti e studi di figure su temi letterari e biblici non avevano precedenti ai suoi tempi e rimangono tra le fotografie vittoriane più ammirate ancora oggi, influenzando gran parte della fotografia moderna. Fra le opere che le diedero maggior notorietà è da ricordare l’illustrazione de Gli idilli del re, una serie di dodici poemi di Alfred Tennyson.

Inoltre, i ritratti della Cameron sono particolarmente significativi perché sono le uniche fotografie esistenti di personaggi famosi di quel periodo storico, diventando così risorse inestimabili. Tra i personaggi che passarono per il suo obiettivo ci sono Charles Darwin, Lord Alfred Tennyson, Robert Browning, John Everett Millais, William Michael Rossetti, Edward Burne-Jones, Ellen Terry e George Frederic Watts.

Nell’autobiografia incompiuta Annals of my Glass House (1889), Julia dice: «Quando avevo davanti alla macchina fotografica uomini di tale levatura, tutta la mia anima si sforzava di fare il suo dovere nei loro confronti registrando fedelmente nello stesso tempo la grandezza del loro io interiore e le caratteristiche esteriori. La fotografia fatta con questo spirito era quasi l’incarnazione di una preghiera».

La Cameron usava il metodo del collodio umido, molto utilizzato nell’800. Grazie alla sperimentazione di tale metodo, Julia si distinse tra i numerosi fotografi donando alla fotografia la sua impronta, nel vero senso della parola. Tempi di esposizione molto lunghi, la scelta di usare una messa a fuoco morbida (insegnatale da David Wilkie Wynfield), scrupolosità dei dettagli, sia per l’allestimento della scena che per la scelta dei modelli e costumi utilizzati. Sviluppava personalmente i master fotografici senza fare troppa attenzione a maneggiare le lastre di vetro umide, lasciandovi spesso impresse le impronte delle sue mani.

Il suo atteggiamento verso la macchina fotografica era istintivo, un approccio che si distaccava molto da quello dei suoi colleghi, che puntavano al raggiungimento della perfezione dell’immagine e della tecnica. Trattava la fotografia come un’arte, non solo come una scienza: «[…] La mia aspirazione è di nobilitare la fotografia e di assicurarle il carattere e le qualità di una grande arte combinando insieme il reale e l’ideale e nulla sacrificando della verità pur con tutta la possibile devozione alla poesia e alla bellezza.»

Julia difese il suo stile affermando che per lei la fotografia non era solo una rappresentazione del reale, ma un mezzo per esprimere un mondo simbolico, immaginario e interiore. La maggior parte delle sue fotografie trovò maggiori consensi tra i pittori Vittoriani preraffaelliti che tra i fotografi e critici dello stesso periodo. I suoi scatti sono carichi di un’aura sospesa di misticismo, tenerezza e sensualità. I volti che immortalava emergono dall’ombra e sono espressivi, malinconici, molto ravvicinati e soprattutto di un formato grande quasi come il reale. Amici, parenti, figli, nipoti e cameriere vennero, volenti o nolenti, di volta in volta trasformati in eroine bibliche, putti rinascimentali, damigelle e cavalieri medievali.

La sua carriera di fotografa non tardò ad affermarsi; fu la prima donna ammessa alla Royal Photographic Society di Londra e dopo diciotto mesi dal suo primo scatto documentato (1864) aveva venduto ottanta stampe al Victoria and Albert Museum. Grazie, inoltre, al suo acuto senso degli affari, esibì, pubblicò e commercializzò le sue fotografie, curando tutto nei minimi dettagli registrando ciascuna delle sue fotografie presso l’ufficio del copyright e tenendo quaderni dettagliati delle sue realizzazioni. È questa una delle ragioni per cui tante delle sue opere sopravvivono oggi.

Nel 1875 gli affari del marito la portarono a trasferirsi nel Ceylon dove, a causa dell’irreperibilità dei materiali, non riuscì a proseguire il suo lavoro. Gli ultimi anni di Julia sono stati senza fotografia: muore a Ceylon il 26 gennaio 1879 a sessantaquattro anni. Nel 1926 fu pubblicata un’edizione delle sue opere fotografiche la cui introduzione venne curata dalla famosa scrittrice Virginia Woolf di cui era prozia materna.

Debora Menichetti

In alto: Julia Margaret Cameron in una foto di Henry Herschel Hay Cameron 

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