Pillole di Femminile. Storie piccole che raccontano un mondo grande #2

Pillole di femminile
Leggerezza. Una vita passata a svolgere un ruolo, ricoprire doveri, essere utili. Ma se un giorno quell’utilità svanisse?

Secondo appuntamento con Pillole di femminile, la rubrica per riflettere su alcuni piccoli grandi temi legati alla vita di tutti i giorni.

Da bambina ero sempre a piedi nudi, inseguivo i polli, le lucertole, mi arrampicavo sui ciliegi e sugli olivi. Mi alzavo con il sorgere del sole e governavo gli animali, poi andavo a scuola a piedi, quasi quattro chilometri ogni giorno, andata e ritorno. La mamma mi teneva il pranzo in caldo e pranzavamo insieme. Papà non poteva aspettarci, specialmente d’inverno, quando ogni spicchio di luce era prezioso per lavorare i campi o badare agli animali.

Ho smesso di studiare dopo la quinta elementare, a casa eravamo sei figli e io ero la più grande. Dovevo aiutare in casa e con i bambini più piccoli, ma a me andava bene, ho sempre preferito correre scalza nell’aia che stare seduta composta per ore.

Crescendo ho imparato a rammendare, fare il bucato, impastare farina e uova, mungere le mucche, sedare le risse dei miei fratelli minori, fare le marmellate e le conserve, uccidere un coniglio e farlo in umido con le olive, prendermi cura dei miei nonni anziani. Mi piaceva la vita da contadina, svegliarmi con il gallo e addormentarmi stanca. Poi è arrivato l’amore e un po’ di cose sono cambiate.

Ho conosciuto Renzo a una festa di paese, di quelle che si fanno per la mietitura del grano. Avevo sedici anni, lui ventidue. Era bellissimo. Alto, moro, io con i capelli cotonati e lui con un taglio alla Paul McCartney. Mi guardava tra una risata e l’altra con gli amici, io gli rendevo qualche occhiata solo quando ero certa che mio padre non mi vedesse. Ci ha messo quasi due ore per presentarsi, ma da quel giorno mi ha fatto una corte serrata. Veniva alla fattoria e si offriva di scortarmi fino al mercato, mia madre acconsentiva a patto che portassi con me uno o due dei miei fratelli.

Ci siamo sposati che non avevo nemmeno compiuto i ventuno anni, mio padre non fece troppa resistenza e mia madre ha pianto lacrime che nemmeno sapeva di avere. Renzo lavorava in città come operaio, così con il matrimonio è finita la mia vita in campagna.

Non ci ho messo molto a rimanere incinta, a trent’anni ero già madre di tre figli. La mia vita ruotava completamente intorno a loro. Scuola, sport, amici, dottori… Renzo lavorava tanto e non ci faceva mancare nulla, il mio compito era crescere i bambini e tenere la casa. A ventisei anni ho preso anche la patente, così potevo sbrigare molte più cose da sola senza gravare su Renzo.

Gli anni sono passati e la casa si è svuotata in fretta. Con tutti i figli sposati e mio marito finalmente in pensione sono cominciate le nostre camminate al mattino e al pomeriggio, qualche piccola gita nel fine settimana, il cinema dopo tanti anni. La vita frenetica era finita, basta corse, solo tempo dilatato – e a volte un po’ noioso – a scandire le giornate. E poi sono arrivati i nipoti. Sono stata la nonna che i miei figli non hanno potuto avere, sempre disponibile e a portata di telefono. Ne ho cresciuti quattro, uno più meraviglioso dell’altro, e sono stati tutti la mia gioia. La tranquillità era finita, ma sono ritornati i trent’anni. Dopo un po’, però, il mio corpo si è come rotto. Il cervello non risponde più come deve, non ordina a dovere e le gambe non eseguono. Nemmeno le braccia e le mani obbediscono o, meglio, obbediscono sconquassate da una malattia che non conosce freno.

Sono costretta su una sedia a rotelle da più di un anno. Tre volte a settimana faccio fisioterapia, ma so già che lo scopo è solo conservativo e non so per quanto tempo ancora riuscirò a farla. Non posso più badare alla casa, fare la spesa, sbrigare tutte quelle commissioni che sono sempre state compito mio. Dipendo quasi totalmente da Renzo e dai miei figli e, ultimamente, anche le mie parole escono storte, scalcagnate. Ripenso alla gioventù da contadina, alla casalinga, alla madre che sono stata. Ripenso alle risorse che ho sempre avuto, alla forza e all’indipendenza che mi hanno permesso di ricoprire il mio ruolo di donna. Ma adesso che non posso più farlo, che quasi non riesco a mangiare da sola, che mi devono lavare e spostare di peso solo per aiutarmi a salire sul letto, mi chiedo: a che cosa servo? Non ho uno scopo, non ho un ruolo né una mansione. Non sono più utile a nessuno, sono ramo secco, zavorra. I rami secchi si tagliano, le zavorre si gettano, quindi non sarebbe meglio se me ne andassi? Chi non è utile è solo un peso e io ho solo voglia di leggerezza. Quando Dio vorrà mi chiamerà accanto a sé, io posso solo pregare perché succeda presto, non mi rimane niente altro in cui sperare, niente per cui vivere.

Serena Pisaneschi

Foto in altro: di Kellepics su Pixabay

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