Famiglie accoglienti adottive e affidatarie impegnate in un importante compito educativo. Differenze e analogie nel superiore interesse del minore.
Dal quarto numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto, scarica il PDF della rivista o sfogliala online.
Due forme spesso poco conosciute di genitorialità sono quelle relative all’adozione e all’affido familiare, che presentano alcuni elementi in comune e per questo vengono anche confuse ma che sono in realtà ben distinte anche, e non solo, giuridicamente. Le motivazioni che conducono a percorrere queste due strade possono essere diverse e può succedere di incontrare nella nostra quotidianità figli, figlie o genitori affidatari e adottivi. Non essendo però queste persone contraddistinte da caratteristiche particolari, e non ce n’è neanche motivo, potremmo anche non saperlo. Conoscere le caratteristiche di questi due sistemi familiari può essere utile a capire che esistono famiglie di tanti tipi diversi che hanno vissuto esperienze a noi sconosciute. La conoscenza è la prima strada per combattere pregiudizi e false credenze, che magari non sappiamo neanche di avere.
I diritti dell’infanzia
La cultura dell’accoglienza si è sviluppata negli anni con l’affermarsi dei diritti del bambino, compreso quello ad avere una famiglia. In passato prevaleva il diritto di una famiglia ad avere un bambino. La sterilità, soprattutto della donna incapace di procreare figli, possibilmente maschi, era vista come una vergogna. La stigmatizzazione è ancora presente, ma la nuova cultura dell’infanzia ha comunque prodotto un cambiamento verso l’idea che sia il minore ad avere diritto a una famiglia, tanto che la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia siglata dall’Onu nel 1989 indica i quattro principi fondamentali su cui si basa il «superiore interesse del bambino», cioè che in ogni decisione, azione legislativa, provvedimento giuridico, iniziativa pubblica o privata di assistenza sociale l’interesse superiore del bambino deve essere una considerazione preminente. Le cronache quotidiane ci raccontano che questo principio non sempre viene applicato, ma già il fatto che sia stato finalmente riconosciuto come diritto è un passo molto importante.
«Ma è davvero tuo figlio?»
L’adozione in Italia è disciplinata dalla legge 184 del 1983 e prevede che il minore adottato assuma lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti, dei quali porta anche il cognome. Potrebbe sembrare una precisazione superflua ma ancora oggi si sentono domande del tipo: «Ma è davvero tuo figlio?» oppure: «Quale dei tuoi figli è vero?» Sarebbero domande da evitare. Per diventare genitori adottivi occorre essere sposati da almeno tre anni e la differenza di età fra i genitori e il minore deve essere compresa fra diciotto e quarantacinque anni. La verifica che gli adottanti siano effettivamente idonei a educare, istruire e mantenere i minori viene effettuata dal Tribunale dei minori tramite i servizi socioassistenziali. L’adottabilità del minore deve essere dichiarata dal Tribunale per stato di abbandono o mancata assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi (nonni, zii, cugini maggiorenni e fratelli maggiorenni) a meno che la privazione sia temporanea e dovuta a impedimenti di forza maggiore. In caso di bambini con gravi disabilità e in assenza di possibilità di affidamento preadottivo a una coppia la legge prevede la possibilità di adottare anche per i single, come nel caso di Luca Trapanese e della piccola Alba che destò i clamori della cronaca.
L’affido: un provvedimento temporaneo
L’istituto dell’affido familiare, al contrario dell’adozione, è un provvedimento temporaneo per minori italiani o stranieri che si trovano in una situazione di instabilità familiare. Le cause sono generalmente dovute a malattie, detenzione, dipendenze da sostanze, incuria o violenza da parte dei familiari. Compito della famiglia affidataria è di occuparsi del mantenimento, dell’educazione, dell’istruzione e delle relazioni affettive del minore come farebbero con un figlio. L’affido può essere consensuale, quando è disposto dal Giudice Tutelare ma con il consenso dei genitori, oppure giudiziale se avviene a seguito di un provvedimento del Tribunale dei minori e può assumere forme diverse a seconda della situazione familiare e delle esigenze del minore:
– a breve termine, circa sei/otto mesi, è la formula spesso utilizzata per gli affidi di emergenza come nei casi di neonati in stato di abbandono per evitare l’istituzionalizzazione nell’attesa dei tempi necessari a individuare una famiglia adottiva;
– a tempo parziale, limitato ad alcune ore al giorno, al fine settimana, a brevi periodi di vacanza quando i genitori non sono in grado di occuparsi del bambino a tempo pieno;
– a lungo termine, ma sempre nel limite dei due anni previsti dalla legge, in caso di situazioni di maggior disagio e complessità.
Il cosiddetto affido sine die è quando, nonostante la temporaneità prevista dalle norme, non si realizzano le condizioni per il rientro del minore in famiglia e il provvedimento di affido viene prorogato. Questi casi in Italia purtroppo non sono pochi e possono determinare nei minori una inevitabile situazione di instabilità. L’affido dovrebbe comunque terminare al raggiungimento della maggiore età.
A differenza dei genitori adottivi possono diventare affidatari coppie coniugate, conviventi e single che abbiano terminato il percorso formativo normalmente previsto e il riconoscimento all’idoneità a potersi prendere cura di un minore. I protagonisti dell’affido sono molto più numerosi di quelli dell’adozione perché per il minore è solitamente previsto il mantenimento dei rapporti con la famiglia d’origine e incontri con il Centro Affidi che si occupa del progetto ma anche con altri tipi di servizi territoriali, come assistenti sociali e psicologi, e ovviamente con il Tribunale dei minori.
Un intreccio di competenze, professionalità e relazioni, che ha l’obiettivo di sostenere il minore durante un momentaneo periodo di difficoltà della sua famiglia ma anche aiutare quest’ultima a recuperare quelle difficoltà che talvolta nella vita possono verificarsi. Un lavoro di squadra complesso e delicato in cui ogni attore è chiamato a fare la propria parte sempre e solo nell’interesse del minore. Nei casi in cui non sia possibile affidare il minore a una famiglia o a una persona singola è consentito l’inserimento in una comunità e ne esistono di varie forme, ma questa è tutta un’altra storia.
Paola Giannò
In alto: foto di Samuel Daboul su Pexels
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